Editoriali

La messinscena della memoria

Nella conferenza di presentazione del Festival delle Memorie, che si terrà a Ferrara dal 25 al 30 gennaio, Moni Ovadia, direttore del Teatro Comunale di Ferrara, ha voluto ringraziare Gabriele Nissim per avergli dato l’idea per questa iniziativa ecumenica, in cui non si parlerà solo di Shoah, ma di altri genocidi.

Una Giornata della Memoria che commemori lo sterminio degli ebrei avvenuto durante la Seconda guerra mondiale, in un’epoca in cui trionfa l’idea che ogni specificità identitaria, ogni unicità etnica o determinazione culturale troppo marcata, è un anacronismo, appare come un vero e proprio affronto alla religione laica dell’inclusività, dell’indistinto umano, o dell’Umanità con la maiuscola.

Gariwo, l’associazione di Gabriele Nissim, che ha allargato il concetto di Giusto al di fuori del suo alveo originario istituito da Yad Vashem, il riconoscimento di chi, non ebreo, ha salvato una o più vite ebraiche durante il tremendo periodo della furia nazista, ha operato e opera esattamente in questa direzione. L’ideologia che la anima è quella universalista che ha la sua matrice più lontana nell’Illuminismo e quella più recente nell’internazionalismo socialista, ovvero l’idea che al di là delle differenze specifiche di ogni popolo e nazione, viste come limitative, come ostacoli da superare, ciò che conta veramente in merito al fattore umano, sia quello che accomuna gli uni agli altri, una sorta di essenza metastorica, che va individuata e promossa, costi quel che costi. La promozione del “bene” necessita infatti di sacrifici e di sacrificati, soprattutto i secondi, i quali non capiscono che ciò che si promuove si promuove anche per il loro bene, nonostante restino arroccati a idee stantie, a vecchi dogmi. Cosa che hanno fatto gli ebrei per secoli, malgrado i tentativi culturalmente “nobili” di volerli diluire fino a farli scomparire. Ugo Volli, in una recente intervista apparsa sul nostro sito ha specificato bene il nucleo della questione. Vale la pena riportare le sue parole in merito:

“In seguito a sconfitte militari o a disastri economici gli ebrei hanno vissuto in prevalenza dispersi fra altri popoli negli ultimi due millenni, ma anche prima durante gli esili in Egitto e in Babilonia. Ma non si sono assimilati, hanno conservato la loro identità religiosa e culturale, rifiutando di fondersi e confondersi con civiltà che si ritenevano più avanzate e moderne. Si tratta di un fenomeno unico nella storia per vastità e durata. Questa ostinazione a restare se stessi è ciò che io chiamo resistenza ebraica. Non tutti hanno resistito, naturalmente, ma sempre sono rimasti dei “resti” abbastanza numerosi da perpetuare l’ebraismo. Questo rifiuto di diventare “come si deve”, di accettare la propria sconfitta culturale assumendo le vesti del vincitore, di convertirsi dunque all’ellenismo, al cristianesimo, all’islam, al marxismo, alla globalizzazione postmoderna, provoca in chi ritiene di aver diritto ad assimilare tutti insicurezza e quindi rabbia e odio. Basta leggere le pagine sugli ebrei di grandi intellettuali liberi, alfieri della tolleranza come Voltaire e Kant, senza neppure arrivare ai nazionalisti intolleranti come Wagner o Fichte o ai fanatici religiosi come Lutero, per vedere all’opera questo meccanismo micidiale”. 

Sono esattamente i cosiddetti “alfieri della tollerenza” quelli che, in nome di idee auliche, di parole strappate al cielo, ci dicono che il Giorno della Memoria non può essere troppo circoscritto, troppo ebraico, troppo identitario, deve essere cioè declinato al plurale.

Anna Foa, storica di riferimento di Gariwo, ha scritto vari articoli sul tema, spiegando che “man mano che la costruzione memoriale si innalza ed erige barriere intorno a sé, per meglio identificarsi, diventa criterio di differenziazione assoluto, dogma”. Questo è il peccato originale da emendare, la differenziazione, per cui, sempre nello stesso intervento, essa si chiede se, “il valore della memoria della Shoah  come pilastro su cui si era ricostruito il mondo dopo Auschwitz” possa essere diminuito dal Covid 19 che qualifica come “nuova catastrofe”.

Siamo qui già oltre la differenziazione, entriamo in mare aperto. Se il Covid è una nuova catastrofe e se la Shoah è una vecchia catastrofe, perchè fermarsi, dove è situabile l’argine? Non è forse una catastrofe ben maggiore del Covid 19 la mortalità infantile, e che dire dei maremoti, dei terremoti, delle alluvioni, dei decessi provocati da tumori, leucemie, e altre malattie? E perchè il Festival delle Memorie dovrebbe situare oltre alla memoria ebraica per la Shoah, solo quella dei tutsi, dei curdi e degli armeni? Cosa ne è dei rohingya e degli uiguri? e perchè non andare oltre la contempornaeità, oltre il Novecento? Se Festival delle Memorie deve essere allora perchè non condensarlo in un festival delle Memorie dei Genocidi perpetrati dall’Umanità, retrocedendo nel tempo, risalendo agli egizi, agli assiri, ai babilonesi, ai romani? Infondo, oggi, negli Stati Uniti, non si afferma in ambito progressista che la fondazione della nazione americana sta nello schiavismo, non si afferma che tutti i bianchi sono colpevoli ontologicamente per il fatto di essere bianchi? Non è, secondo questa  vulgata, l’unico grande crimine della storia umana, il colonialismo, padre di tutti i genocidi?

L’evidenza della matrice ideologica di una iniziativa come quella di Ferrara, sfugge solo a chi finge di non vederla, o a chi, come Moni Ovadia, autorappresentazione parodistica dell’Ebreo totale, colto, diasporico, umanista, e per questo necessariamente antisionista, la propone come servizio reso alla vecchia idea internazionalista così ben rappresentata da un marxista come Isaac Deutscher, già biografo di Lenin, il quale poteva dire: “La religione? Sono un ateo. Il nazionalismo ebraico? Sono un internazionalista. In nessuno di questi due sensi sono un ebreo. Sono tuttavia un ebreo per la forza della mia incondizionata solidarietà nei confronti dei perseguitati e degli sterminati”.

Il nuovo dogma chiede adesione piena all’incondizionato. Se Dio non c’è, può esserci solo l’Umanità, soprattutto quella oppressa, questo surrogato mistico a cui votarsi con ardore liberatorio, possono esserci le memorie, non la memoria, la finzione una Storia sottratta alle storie, alla irriducibile singolarità di ogni situazione, alla sua unicità e imparagonabilità, può esserci appunto un festival istituito da un teatrante.

 

 

 

 

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