Editoriali

La storia che si fa e le ore buie

Vedere il Segretario di Stato americano, Antony Blinken sostanzialmente implorare Yahya Sinwar, l’architetto dell’eccidio del 7 ottobre, di accettare l’accordo proposto da Israele a Hamas, è, finora, il punto più basso a cui è arrivata la diplomazia americana nel suo costante sforzo di mettere fine alla guerra a Gaza indipendentemente dalla vittoria di Israele.

L’accordo che prevede il rilascio di 33 ostaggi e una lunga tregua, non meno di quaranta giorni,  la quale prelude poi al rilascio dei soldati e degli uomini sotto i cinquanta anni, con l’obiettivo di “ristabilire una situazione di calma”, tenue perifrasi per significare di fatto la fine della guerra.

Hamas ringrazia. Provvederà a fare sapere se va tutto bene nelle prossime ore. Intanto in Israele i manifestanti per il rilascio degli ostaggi, progressivamente più copiosi, chiedono che si dimentichi Rafah, ovvero che si accantoni la vittoria. Come ha detto ieri Daniel Pipes, nell’intervista che ci ha rilasciato, la lobby degli ostaggi ha avuto la meglio su quella della vittoria. http://www.linformale.eu/la-lobby-degli-ostaggi-ha-sconfitto-quella-della-vittoria-intervista-a-daniel-pipes/

Hamas ha giocato magnificamente la sua carta provvedendo a inviare con tempistica perfetta video degli ostaggi ancora in vita in modo da fare leva sulle piazze, giocando in modo cinico e spietato sui sentimenti dei parenti, sulla loro disperazione.

Inutile coltivare illusioni, anche se i piani finali per l’operazione militare a Rafah dove si trovano asserragliati quattro battaglioni integri di Hamas, sono stati approvati dal capo di stato maggiore. Si tratta di un evidente spauracchio il cui scopo è quello di spingere ulteriormente Sinwar e i suoi accoliti ad accettare il negoziato apparecchiato dagli Stati Uniti che hanno l’esigenza impellente di una tregua prolungata che conduca alla fine della guerra e al definitivo commissariamento di Israele, il quale ha come capisaldi che a Gaza l’Autorità Palestinese torni a governare, magari con quel che resta di Hamas, e poi la nascita di uno Stato palestinese in Cisgiordania. Ma Sinwar, se è lucido e calcolatore come appare, non ha bisogno della pressione psicologica di un eventuale ingresso di Israele a Rafah. Sa benssimo che non è negli interessi americani. L’accordo che gli è stato proposto è più che favorevole. Salvo colpi di scena verrà approvato.

La resa di Israele alle esigenze politiche statunitensi è solare. Benjamin Netanyahu non è stato in grado nonostante i continui proclami roboanti sulla vittoria prossima, sulla necessità di distruggere Hamas, di andare realmente fino in fondo.

Alle sue spalle ha agito una criminalizzazione di Israele che non ha alcun precedente, con piazze incitanti alla scomparsa dello Stato ebraico, università americane in cui minoranze di facinorosi hanno creato zone judenfrei, con accuse di genocidio portate davanti ai tribunali e con, ciliegina sulla torta, prossimi ordini di arresto per lui, il ministro della Difesa Gallant e il capo di stato maggiore Halevi, che la Corte penale internazionale avrebbe intenzione di emanare.  Ma tutto questo, pur nella sua oscena gravità ha pesato meno delle pressioni americane, dei ricatti, e delle intimidazioni della Casa Bianca, molto meno. Se al posto di Joe Biden, Israele si fosse trovato chi, come Donald Trump, lo ha esortato e lo avrebbe esortato “to finish the job”, non saremmo giunti alla situazione attuale, ma come si dice proverbialmente, la storia non si fa con i se.

E la storia che si fa, la vedremo farsi nelle prossime ore. Se le cose andranno nella direzione in cui sembra stiano andando, saranno tra le ore più buie di Israele.

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