Stati Uniti e Israele

Speranza amara

Nella bozza dell’accordo che è stato presentato da Israele a Hamas c’è la fine della guerra, come vuole l’Amministrazione Biden, che mai come nessuna altra amministrazione americana ha commissariato di fatto una guerra di Israele in modo così perentorio e stringente.

Per il rilascio di 33 ostaggi, Israele è disposto a concedere al gruppo terrorista salafita responsabile dell’eccidio del 7 ottobre scorso, tredici settimane di tregua. Chiunque conservi un minimo senso della realtà può capire facilmente che tre mesi di cessate il fuoco preludono di fatto alla fine della guerra. In questo lasso di tempo prolungato agirebbe la politica, ovvero agirebbe ancora più massicciamente la Casa Bianca, per la quale il proseguimento del conflitto a Gaza rappresenta solo una iattura elettorale in vista delle prossime presidenziali, e che in un momento in cui le proteste contro la guerra all’interno delle università americane si sta estendendo sempre di più, la vuole terminata.

Chi può davvero credere che dopo tre mesi, e in vista di soli altri tre mesi prima delle presidenziali di novembre, gli Stati Uniti permetterebbero a Israele di riprendere il conflitto?

Da mesi Benjamin Netanyahu ha annunciato l’imminente ingresso dell’IDF a Rafah, ultimo avamposto di Hamas, da mesi gli Stati Uniti esprimono la loro netta contrarietà all’operazione militare. Netanyahu non ha la forza e la spavalderia di contrapporsi agli Stati Uniti. Di Bibi “l’americano” nel corso della sua lunga carriera politica non si ricorda una sola decisione dirompente, nulla che abbia marcato la sua autonomia dai desiderata americani.

Durante il periodo dell’Amministrazione Trump, il più favorevole a Israele dalla sua nascita a oggi, a Netanyahu è semplicemente bastato andare a ricasco delle decisioni che di volta in volta venivano concertate a Washington e alle quali gli bastava dare il proprio assenso, dalla decisone di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, a quella di uscire dall’UNRWA, dalla decisione di legittimare la sovranità israeliana sul Golan, a quella di non considerare illegali gli insediamenti in Cisgiordania, dall’uscita dall’accordo sul nucleare iraniano, “fiore all’occhiello” della disastrosa politica estera dell’Amministrazione Obama, agli Accordi di Abramo.

Con Biden, au contraire, Netanyahu ha solo dovuto incassare critiche e prese di posizione che nel corso della guerra si sono fatte sempre più aspre e intimidatorie, e salvo qualche occasione in cui è sembrato tenere botta, alla fine ha ceduto su un accordo disastroso che se, come è probabile, visto i vantaggi che gli offre, verrà accettato da Hamas, avrà per Israele, conseguenze disastrose.

Netto in proposito è stato oggi Bezalel Smotrich, il ministro delle Finanze che dall’Amministrazione Biden è bollato come un estremista, il quale, dopo avere già minacciato l’uscita del suo partito dal governo se l’accordo dovesse andare in porto, ha dichiarato che “Siamo arrivati ​​a un bivio in cui lo Stato di Israele deve scegliere tra la vittoria decisiva, la sconfitta in guerra e l’umiliazione. L’accettazione dell’accordo significa inequivocabilmente sventolare bandiera bianca e garantire la vittoria di Hamas”.

Sono parole che echeggiano quelle che ha detto a L’Informale, Daniel Pipes in merito all’accordo sul tavolo: “Hamas continuerà a perseverare per combattere nuovamente Israele; in Israele la lobby degli ostaggi ha sconfitto la lobby della vittoria; e tutti i grandi discorsi di Netanyahu sulla ‘vittoria totale’ erano solo delle chiacchiere”.

C’è di più, naturalmente. La vittoria di Hamas, ovvero la sua persistenza a Gaza nonostante sia stato decimato, sarà una fonte di incoraggiamento per tutta la variegata galassia dell’estremismo islamico, darà forza all’Iran e mostrerà inequivocabilmente al mondo che Israele è ormai de facto una colonia americana, incapace di salvaguardare i propri interessi se essi sono in contrasto con quelli del suo principale alleato. In altre parole evidenzierà solo la sua debolezza, e la debolezza, specialmente in Medio Oriente, è pagata cara.

Resta solo una flebile speranza a che l’accordo non vada in porto, che Yahya Sinwar desideri alzare ulteriormente la posta, che non gli sia sufficiente il molto già ottenuto. Speranza amara, quella che l’eventuale fallimento dell’accordo possa dipendere non dall’indisponibilità israeliana a fare delle concessioni ma dall’ingordigia di un fanatico pluriomicida.

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