Editoriali

L’accordo e la rinuncia

L’ennesima doccia fredda all’estensione di sovranità israeliana sulla Cisgiordania (Giudea e Samaria, West Bank) arriva nella forma di un accordo di cooperazione tra gli Emirati arabi e Israele, sotto l’egida degli Stati Uniti. L’accordo, annunciato festosamente come un episodio epocale per il Medio Oriente, proclama che “Come risultato di questa svolta diplomatica e su richiesta del presidente Trump con il sostegno degli Emirati Arabi Uniti, Israele sospenderà la dichiarazione di sovranità sulle aree delineate nel President Vision for Peace e concentrerà i propri sforzi sull’espansione dei legami con altri paesi nel mondo arabo e musulmano “.

Dunque, quella che avrebbe dovuto essere una mossa dirompente e di impatto concreto sul terreno, l’estensione di sovranità israeliana sul 30% dei territori in Cisgiordania, mossa concessa da Donald Trump a Israele, unico presidente americano ad averlo fatto dal 1967 a oggi, viene  adesso congelata se non affossata, in vista di un accordo diplomatico e del futuro roseo che ne dovrebbe conseguire.

L’antecedente più prossimo a questo esito si è avuto il 12 giugno scorso, quando Yousef Al Otaiba, ambasciatore degli Emirati a Washington, scrisse un pezzo pubblicato su Yedioth Ahronoth in cui diceva chiaramente che il proposito del governo Netanyahu di estendere la sovranità israeliana su una porzione della Cisgiordania avrebbe capovolto “certamente e immediatamente le aspirazioni israeliane di una maggiore sicurezza, i legami economici e culturali con il mondo arabo e con gli Emirati Arabi Uniti”.

Nel pezzo, Al Otaiba, elencava i vantaggi che Israele avrebbe avuto dai buoni rapporti con gli Emirati, distensione e collaborazione; “Queste sono le carote – gli incentivi, i lati positivi – per Israele. Maggiore sicurezza. Collegamenti diretti. Mercati espansi. Accettazione crescente. Questo è ciò che potrebbe essere la norma. Normale non è l’annessione. Invece, l’annessione è una provocazione fuorviante di ordine diverso. E continuare a parlare di normalizzazione sarebbe solo un’errata speranza di rapporti migliori con gli stati arabi. Negli Emirati Arabi Uniti e in gran parte del mondo arabo, vorremmo credere che Israele rappresenti un’opportunità, non un nemico. Affrontiamo troppi pericoli comuni e vediamo il grande potenziale di legami migliori”. L’articolo si concludeva con questa frase. “La decisione di Israele a proposito dell’annessione sarà un segnale inequivocabile se la vediamo allo stesso modo”.

Linguaggio suadente, amichevole, ma, allo stesso tempo, perentorio. Se procedete con l’estensione di sovranità, “l’annessione” non avrete amici ma nemici. E Israele, dietro pressione americana, ha ceduto, come ha già ceduto in passato con gli Accordi di Oslo del 1993-1995 e lasciando Gaza nel 2005. Certamente si tratta di casi diversi, ma fino a un certo punto. Allora si trattava di terra in cambio di pace (mai arrivata), qui si tratta di riunciare a un diritto legittimo e riconosciuto per la prima volta, da un presidente americano, quindi, ancora una volta, di terra in buona sostanza, in cambio di un rapporto più disteso e proficuo con gli Emirati, di una promessa di amicizia.

Poco conta che un sempre meno credibile Benjamin Netanyahu affermi nella conferenza stampa seguita all’annuncio, che il piano di estendere la sovranità su parte della Cisgiordania non è stato accantonato. Non costa nulla affermarlo. Di fatto è stato sospeso sine die, è un morto che cammina.

Se Trump non dovesse essere rieletto, per almeno quattro anni l’iniziativa sparirebbe completamente dalla scena. Nel caso in cui Trump venisse riconfermato, Netanyahu, sempre che riesca ancora a dominare la scena politica israeliana per altri quattro anni, non prenderà alcuna iniziativa che non abbia il placet americano. Nel frattempo, i buoni rapporti tra Emirati e Israele non sposteranno di un millimetro l’accanimento dei suoi nemici, Iran in testa, con al seguito la Turchia e le sigle del terrore, Hamas, Jihad Islamica, Hezbollah.

Il retrocedere di Israele dall’iniziativa annunciata e l’accordo con gli Emirati, salutato con entusiasmo anche da Joe Biden, che in parte se lo intesta, come coronamento della politica perseguita da Barack Obama, certifica, ancora una volta, la persistenza di uno stallo che solo pochi mesi fa sembrava avviarsi a una parziale e necessaria soluzione

 

 

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