Editoriali

L’illusionista

Non si sono ancora spenti gli echi di gioia e di soddisfazione per l’annunciato accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Unti, relativi alla prossima apertura di piene relazioni diplomatiche tra i due paesi. Questo passo è il primo tra Israele e una monarchia del Golfo. Molti analisti prevedono che si tratti dell’apertura che darà il via all’estensione di ulteriori relazioni diplomatiche con altri paesi del Golfo persico.

Proveremo a capire se questa mossa politica di Netanyahu sia così meritevole di sperticate lodi o contenga in sè anche una parte pericolosa che si ritorcerà prima o poi contro Israele e la sua legittima presenza a ovest del fiume Giordano.

Dai primi elementi che stanno emergendo da questo importante accordo si possono già trarre delle considerazioni di carattere generale, che, quando emergeranno nitidamente tutti i dettagli potranno essere confermate o smentite.

Quello che appare a caldo, è che l’accordo ricalchi nei modi e nei principi la logica che è alla base del trattato di pace con l’Egitto, la Giordania e gli Accordi di Oslo (argomenti già trattati sull’Informale con articoli ad hoc): Israele ha sempre “subito” i trattati come se fosse lui l’aggressore e non l’aggredito e come se fosse lui lo sconfitto e non il vincitore delle guerre subite. In pratica, ancora una volta. è l’unica delle due parti in causa a dover fare concessioni concrete in cambio di promesse e di una accettazione di legittimità, da parte araba, che dovrebbe essere alla base dell’accordo e non il risultato dell’accordo stesso. Questo principio asimmetrico ha posto lo Stato di Israele sempre e inevitabilmente in un piano di ingiustificata inferiorità nei confronti del suo interlocutore. In pratica, per questo “bizzarro principio” alla fine delle trattative è sempre e solo Israele che fa concessioni alla controparte a prescindere dai torti e dalle ragioni delle due parti in causa.

Da parte emiratina si “concede” ad Israele il pieno riconoscimento diplomatico (non si sa bene con quali “confini”) e l’avvio di promettenti scambi economici, politici e forse di intelligence. In pratica, gli Emirati non fanno nessuna concreta “concessione” ma semplicemente, come sopra espresso, “riconoscono” la legittimità di Israele con una sorta di “indulto” dopo che Israele ha commesso un grave “crimine”: esistere e proprio sulla terra dei suoi avi.

Pochi commentatori hanno messo in rilievo – e tra essi, a più riprese,  Niram Ferretti – il fatto che molto probabilmente alla base di questo accordo c’è la paura, da parte dei regnanti del Golfo, nei confronti dell’espansionismo sciita iraniano. Ma una volta che tale paura dovesse venire meno, sussisterebbero ancora i presupposti di una “pace” realmente sentita?

Da parte israeliana si è messo sul tavolo delle trattative qualcosa di “enorme”: la piena e completa sovranità su oltre 600.000 suoi abitanti e sul relativo territorio di residenza. Questa decisione, è bene ricordarlo, non era mai stata messa sul piatto da nessun governo precedente: neanche dal governo Rabin in occasione degli Accordi di Oslo. Che poi, Netanyahu da abile politico, parli di “congelamento” e non di rinuncia dell’estensione di sovranità, non cambia il principio delle cose: da questo momento in poi la presenza ebraica in Giudea e Samaria è qualche cosa di “trattabile”, di rivedibile ed eventualmente di rinunciabile? Tale principio per la stessa ragione è allora estendibile a Gerusalemme nella sua parte della Città vecchia. La si potrà mettere sul piatto delle trattative per un futuro trattato di pace “irrinunciabile”? Chi deciderà sulla sua irrinunciabilità sarà di volta in volta un nuovo governo israeliano, la nuova amministrazione USA o la UE?

C’è chi può obiettare sul fatto che Netanyahu non ha in realtà “concesso” nulla perché di fatto le cose rimarranno così come sono restate negli ultimi 50 anni. Però in concreto non è così: nessun Primo ministro, in precedenza, aveva dichiarato esplicitamente nel programma di governo di portare a compimento l’estensione di sovranità delle comunità di Giudea e Samaria salvo poi ritrattare pur di arrivare ad un accordo con un paese arabo. Questo evento si inscrive, chiaramente, come esempio di ingerenza esterna su un fatto che dovrebbe rimanere confinato alla politica interna di Israele se le moribonde trattative con i palestinesi non porteranno a nulla di concreto nei prossimi anni. E il diritto è dalla parte di Israele. Se si da l’avvio al principio di rinuncia di terra assegnata o di una città – o parte di essa – ogni volta che si intavola una trattativa di pace con un paese arabo la cosa può essere davvero pericolosa (i paesi arabi che devono firmare la pace con Israele sono ancora più di 20).

Inoltre, da fonti dell’amministrazione USA si scopre che le trattative andavano avanti da oltre un anno. Questo avvalora la tesi che l’episodio che ha sbloccato le trattative è stata la rinuncia da parte di Netanyahu all’estensione di sovranità promessa. E a ben vedere questo punto è l’unico messo in rilievo da parte emiratina con la stampa.

Infine è bene ricordare che l’opportunità che il Piano di pace targato Trump aveva dato al governo Netanyhau di estendere la sovranità a parti della Giudea e Samaria è da considerarsi un evento forse irripetibile anche se negli ultimi mesi l’amministrazione USA è sembrata molto più ambigua in merito.

Questa circostanza fa tornare alla mente i mesi precedenti alla dichiarazione di indipendenza di Israele nel 1948. Gli USA di Truman erano favorevoli alla nascita dello Stato di Israele salvo poi cambiare idea nel marzo del 1948. Da qual momento in avanti iniziò una vera a propria campagna di ricatto da parte del dipartimento di Stato per evitare che Israele in maggio dichiarasse la propria indipendenza. Ma Ben Gurion non cedette e nonostante l’aggressione araba lo Stato vide la luce. L’allora “treno” non fu perso e se fosse stato perso non si sarebbe più ripresentata questa opportunità storica.

Analogamente, si ha il concreto timore che, passato “il treno dell’estensione della sovranità”, ben difficilmente ne passerà un altro. E questa era la vera grande opportunità che Netanyahu non doveva farsi sfuggire.

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