Editoriali

Autonomia sovrana e doppia morale

In una intervista rilasciata ieri a Fox News, Benjamin Netanyahu è stato costretto a dire ciò che è ovvio, ma che in tempi ferocemente avversi al senso comune è  sempre necessario evidenziare.

“Non sono mai intervenuto nei dibattiti interni di altre democrazie…Negli Stati Uniti è in corso un dibattito sostanziale tra la Corte Suprema e l’esecutivo, e non ho alcuna intenzione di commentare in proposito…Noi prediamo le nostre decisioni. Nelle democrazie e negli Stati sovrani, nelle democrazie sovrane, sono i rappresentati eletti dal popolo a prendere le decisioni, ed è quello che accadrà in Israele”.

Bisognerebbe spiegare il concetto all’amministrazione Biden, la prima ad ingerire massicciamente su una riforma, quella della giustizia, che riguarda la politica interna di uno Stato, e sulla quale solo Israele può avere, legittimamente, voce in capitolo.

Immaginiamo solo per un attimo gli Stati Uniti che intervengano sulla annunciata riforma della giustizia del governo Meloni. Sarebbe ipotizzabile una eventualità simile?, ma Israele, si sa, è un  caso a parte per quanto riguarda tutti i parametri possibili.

Fin da subito, quando venne annunciata la riforma, il Segretario di Stato Antony Bliken, durante una visita ufficiale in Israele, recapitò a Netanyahu il messaggio che la riforma avrebbe dovuto essere concertata con l’opposizione. Di seguito, quando ormai proteste ben oliate ed eterodirette si seguivano con ritmo incalzante in gran parte del paese rischiando di paralizzarlo (lo scopo principale era quello di fare cadere il governo o di costringerlo alla resa su una riforma cardine, il che avrebbe significato la sua caduta), Biden in persona intervenne a gamba tesa, affermando in modo perentorio che Israele non poteva continuare a lungo sulla strada che stava percorrendo.

Bisogna procedere con ordine. La vittoria di Netanyahu alle ultime elezioni e la formazione di un governo con una forte accentuazione nazionalista e religiosa non è stata affatto presa bene a Washington dove, per ovvie ragioni ideologiche, si preferiva il governo precedente.

Seppure non apertamente ostile nei confronti di Israele come l’amministrazione Obama, l’amministrazione Biden ha continuato a mantenere in vita una spiccata prevenzione verso Netanyahu, a maggior ragione dopo la costituzione di un governo che ha imbarcato elementi considerati indigeribili. A tutt’oggi, Netanyahu non è ancora stato ricevuto alla Casa Bianca, uno sgarbo istituzionale assai eloquente.

In questi mesi, relativamente alla riforma della giustizia, abbiamo ascoltato affermazioni destituite della più totale credibilità e spudoratamente menzognere sulla presunta deriva antidemocratica a cui essa porterebbe. La realtà è ben altra. La riforma non solo è necessaria per arginare il potere esondante di una Corte Suprema il cui interventismo non ha precedenti in nessuno altro Stato democratico, ma costituisce di fatto, esattamente il contrario di quello che i suoi detrattori le imputano, essa infatti ha lo scopo di sanare lo squilibrio che la Suprema Corte ha inferto alla democrazia.

Il primo articolo della riforma, approvato la settimana scorsa a larga maggioranza dalla Knesset prima della chiusura estiva, va a modificare strutturalmente il cosiddetto principio di ragionevolezza, ovvero il criterio in base al quale, il Procuratore Generale dello Stato, gli avvocati assegnati come sorveglianti ai vari dicasteri e i magistrati, possono, a loro insindacabile giudizio, sulla base di ciò che viene considerato ragionevole o irragionevole, sterilizzare ogni decisione dell’esecutivo.

E’ questo solo il primo passo di una riforma che per anni è stata accantonata principalmente perché non sussisteva la maggioranza compatta per poterla realizzare. Ora, finalmente, questa maggioranza c’è, e nonostante le massicce proteste di piazza e le pesanti ingerenze americane, non ha ceduto alle pressioni è sta dando corso al mandato ricevuto dagli elettori.

Nell’intervista concessa a Fox News, Netanyahu ha fatto molto bene a ricordare che in questo momento, proprio negli Stati Uniti si è acceso un dibattito in merito alle prerogative della Suprema Corte, che, secondo i suoi critici, avrebbe, acquisito un potere soverchiante. Così, un suo critico, su Vox scrive: 

“In meno di tre anni, da quando il presidente Joe Biden è entrato in carica, la Corte Suprema ha preso effettivamente il controllo sulla politica abitativa federale, ha deciso quali lavoratori devono essere vaccinati contro il Covid-19, ha privato l’EPA di gran parte del suo potere di contrastare il cambiamento climatico e riscritto una legge federale che permette al segretario dell’istruzione di modificare o condonare i prestiti agli studenti”.

A proposito della questione relativa alla bocciatura del condono dei prestiti agli studenti da parte della Corte, il medesimo autore, sempre su Vox scrive:

“Quindi il Congresso ha concesso esplicitamente al ramo esecutivo il potere di modificare o condonare gli obblighi di prestito studentesco durante una crisi nazionale come la pandemia di Covid-19. Ma sei giudici, quelli nominati dai presidenti repubblicani, hanno deciso di saperne di più sia del Congresso che dell’esecutivo”.

Ma non è esattamente questo quello che in Israele viene imputato dal governo in carica che si appresta a varare la riforma, ai giudici? Di prevaricare rendendole di fatto inefficaci, le prerogative dell’esecutivo? Con una variante, che il potere di interdizione nei confronti della politica, che l’autore di Vox imputa ai giudici conservatori voluti da Trump è, da trent’anni, e con una estensione assai maggiore, il potere che la Corte Suprema esercita in Israele.

La morale è, ovviamente, doppia. Siccome in Israele la maggioranza dei giudici che negli anni si sono avvicendati sugli alti scranni, ha avuto un orientamento progressista, se si tocca il loro potere, si attenta alla democrazia, mentre non solo è legittimo, ma doveroso, mettere in discussione le prerogative della più alta istituzione giuridica americana se le decisioni che essa assume sono in contrasto con l’indirizzo progressista del governo.

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