Storia di Israele e dell’Ebraismo

Gerusalemme: Breve storia della città, parte seconda

Il nome ebraico di Gerusalemme è, come è noto, Yerushalaim, da cui l’italiano Gerusalemme, tuttavia si fa spesso riferimento ad essa anche con il termine Sion, che è uno dei monti della città, ma anche con il meno noto Beit Ha-Miqdash, che significa “la Casa della santità” cioè del Tempio. Un altro nome della città, è stato quello latino di Aelia Capitolina. Nome imposto dall’imperatore Adriano e che rimase in vigore per 5 secoli.

In arabo la città è conosciuta, oggi, con il nome di Al-Quds. Va sottolineato che questo nome è la contrazione recente del nome arabo completo: Madinat bayt al-Maqdis (che significa la città del Tempio), termine utilizzato per numerosi secoli. Questo nome non è altro che la traduzione araba dall’ebraico Beit Ha-Miqdash. Prova inconfutabile che anche per gli arabi la città era legata al Tempio e all’ebraismo prima del loro arrivo nel VII secolo d.C.

E’ da sottolineare che nel Corano non si menziona mai il nome di Gerusalemme in nessuna delle sue denominazioni arabe. Il nome appare per la prima volta in un Hadith (legge orale islamica) molto tempo dopo la morte di Maometto. Il riferimento alla santità – per i musulmani – della città è di molto posteriore alle vicende che riguardano il Profeta. L’unico presunto riferimento a Gerusalemme, presente nel Corano, è il riferimento alla moschea al-Aqsa. Volendo entrare in merito a questo termine, si può osservare che il nome completo della moschea è al-Masjid al-Aqsa – che significa letteralmente “la moschea più lontana”, in contrapposizione alla moschea più vicina citata sempre nel Corano (al-Masjid al-Adna). Quando venne redatto il Corano la città di Gerusalemme non faceva ancora parte del dominio arabo e la moschea di al-Aqsa non era stata ancora costruita. Essa venne costruita a partire dal 709 d. C. cioè 80 anni dopo la morte del Profeta.

E’ solo a partire dal 2000 e dall’inizio della seconda intifada orchestrata da Arafat, che nel mondo arabo, si è iniziato a negare la storia della città e il suo legame con il popolo ebraico per chiari intenti politici. Ed è esclusivamente per ragioni politiche che le risoluzioni dell’UNESCO del 2016 definiscono il Monte del Tempio con i soli nomi arabi di Al-Aqsa e Al-Haram Al-Sharif mentre il Kotel diviene Al-Buraq, con il chiaro proposito di rescindere ogni legame tra gli ebrei e la città.

In base a queste risoluzioni, Israele diviene una “forza occupante” cosa ribadita da una risoluzione dell’Assemblea Generale del 30 novembre 2017 e dalla Risoluzione 2334 del 23 dicembre 2016 del Consiglio di Sicurezza. In conclusione, per l’ONU, Israele e gli ebrei non hanno diritti su Gerusalemme. Ma si possono accettare queste affermazioni?

Cenni storici

Fin dai primi incontri, durante le trattative che portarono al Trattato di Versailles, che videro protagonisti le Potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, riguardanti il futuro assetto dell’intera regione del Medio Oriente, allora facente parte dell’Impero ottomano, la posizione di Gerusalemme era chiara: sarebbe stata parte del futuro Stato assegnato al popolo ebraico. E questo fu deciso sia per la presenza ebraica già maggioritaria in città, sia per il legame millenario che essa aveva con il popolo di Israele. Questa decisione fu ripresa dal Trattato di san Remo, da quello di Sevres e di Losanna e soprattutto dal Mandato britannico per la Palestina sancito dalla Società delle Nazioni nel 1922. Con queste disposizioni inizia il diritto internazionale relativo alla città.

Relativamente alle disposizioni del Mandato britannico, Gerusalemme, non è mai menzionata in modo specifico perciò è da sottintendere che fosse parte integrante del territorio affidato al popolo ebraico assieme al resto del Mandato. Mentre è più volte sottolineato nelle disposizioni mandatarie – nel preambolo e negli artt. 2, 9, 13 e 14 – che la potenza mandataria si fa garante del rispetto di tutti i luoghi santi per le tre religioni monoteiste e che non verrà fatto nulla che possa pregiudicare la piena libertà di culto e i diritti civili degli abitanti non ebrei.

L’Agenzia Ebraica, l’ente che in accordo con la Società delle Nazioni doveva sovraintendere all’immigrazione e allo sviluppo del paese, aveva il suo quartier generale proprio a Gerusalemme vista la sua importanza per la storia e la cultura ebraica.

Nell’articolo precedente, in merito alla Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale, si accennava al fatto che tutte le disposizioni mandatarie sono rimaste in vigore, in seno al diritto internazionale, e che le disposizioni relative alla città di Gerusalemme contenute nella Risoluzione 181 non hanno valore legale perché gli arabi non le hanno accettate. Si può aggiungere una nuova annotazione relativa al diritto internazionale: anche qual’ora le due parti interessate alla spartizione proposta dall’Assemblea Generale, gli ebrei e gli arabi, avessero accettato le condizioni poste, cioè l’internazionalizzazione della città come corpus separatum, amministrato direttamente dall’ONU per 10 anni, ci sono dei seri dubbi che questa disposizione sia pienamente valida per il diritto internazionale. Questo perché una “raccomandazione” dell’Assemblea Generale, benché accettata dalla parti, non ha il potere legale di abrogare una legge del diritto internazionale (le disposizioni del Mandato per la Palestina) facente parte dello Statuto stesso dell’ONU: l’articolo 80. A questo proposito è opportuno ricordare che la Gran Bretagna, in qualità di potenza mandataria nel 1939, fece una proposta ufficiale di spartizione del Mandato, al fine di trovare una soluzione pacifica alla disputa tra arabi ed ebrei, alla Commissione Mandati permanenti che poi la sottopose al Consiglio della Società delle Nazioni, il quale la rigettò perché in contrasto con i termini del mandato stesso (anche in questo caso gli ebrei avevano accettato la proposta della Commissione Peel e gli arabi no).

Gerusalemme fece parte del Mandato britannico di Palestina dal 1922 al 1948 quando gli inglesi, in qualità di potenza mandataria, rimisero il mandato all’ONU e si ritirarono. Di questo periodo storico ci è pervenuta, da fonte araba, una interessante guida (vedi figura 1) voluta e pubblicata dal Supremo Consiglio Islamico presieduta dal Gran Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini (colui che anni dopo si alleò con la Germania nazista) relativa alla città di Gerusalemme e ai suoi luoghi santi per l’Islam.

Quella qui raffigurata è una edizione in inglese del 1925. Si tratta di un documento molto interessante. In questa guida dei luoghi santi, il Supremo Consiglio Islamico nel descrivere la storia di Gerusalemme fa menzione del Tempio ebraico come esistito senza nessun dubbio e dalla cui presenza si fa derivare il nome arabo della città. Inoltre, cosa altrettanto importante, la moschea al-Aqsa è menzionata come essa effettivamente è: la moschea propriamente detta nella parte sud della spianta delle moschee o “al-Haram al-Sharif” cioè il luogo sacro e nobile. E’ un dato molto importante perché contrasta apertamente con l’interpretazione data dalle risoluzioni dell’UNESCO e dell’Assemblea Generale dove si afferma che per “estensione” tutto il luogo noto come al-Haram al-Sharif coincide con la moschea al-Aqsa. Questo per il mondo musulmano ha un significato ben preciso: se tutto il monte del Tempio è parte della moschea al-Aqsa nessuna sua parte può essere condivisa con altri. Essendo il Kotel – il muro occidentale – parte del complesso, esso diviene parte della moschea e quindi sacro ai musulmani e non può essere lasciato agli ebrei, ora visti come usurpatori e occupanti. E’ da rimarcare ancora una volta come il Kotel sia il luogo più importante per l’ebraismo dalla distruzione del Tempio ad opera dei romani.

Con l’indipendenza di Israele, proclamata nel maggio 1948, la città di Gerusalemme fu divisa in due a causa dell’occupazione illegale giordana della sua parte est. Tale situazione rimase in atto fino al 1967 quando Israele, respinto l’attacco armato giordano, riuscì a riunificare la città sotto il proprio controllo. Dal periodo di occupazione giordana ci è giunta un’altra interessante fonte araba che contrasta apertamente con l’interpretazione odierna che indica la coincidenza tra l’area denominata al-Haram al-Sharif con la moschea al-Aqsa. Questa è una mappa di Gerusalemme edita in Giordania dall’ente di turismo (vedi figura 2).

La mappa turistica mostra in modo inequivocabile come la moschea al-Aqsa sia la moschea propriamente detta mentre l’intero complesso sia denominato al-Haram al-Sharif e sia ben distinto dalla moschea (vedi figura 3).

Quindi è possibile affermare che la tesi secondo la quale al-Haram al-Sharif coincide con la moschea al-Aqsa è del tutto falsa ed è stata fabbricata in tempi molto recenti per creare un contenzioso del tutto pretestuoso, e che l’UNESCO e l’Assemblea Generale si siano prestati al gioco per motivi politici e non certo per motivi storici e culturali. Vista più in dettaglio questa fabbricazione ha un “motore primo”: Yasser Arafat.

Fu infatti la “giustificazione” del rifiuto di Arafat alla proposta di Ehud Barak, quando il premier israeliano propose la divisione di Gerusalemme all’interno della più ampia cornice di un accordo di pace nel 2000. La proposta di Barak prevedeva, infatti, che gli ebrei mantenessero il Kotel mentre tutta la restante parte del monte del tempio diventava di piena sovranità palestinese. Gli arabi risposero facendo coincidere al-Haram al-Sharif con la moschea al-Aqsa, quindi dal loro punto di vista la cosa non era negoziabile e la proposta fu rigettata.

Dal 1967 Israele ha riunificato la città e dal 1980 l’ha dichiarata capitale unica e indivisibile con una legge fondamentale dello Stato. Questa legge è stata avversata dal consesso mondiale e dichiarata nulla e in violazione del diritto internazionale, dal Consiglio di Sicurezza e da tutte le altre agenzie dell’ONU senza specificare, tra l’altro, con precisione in che modo violerebbe il diritto internazionale.

E’ dal 2000 e dallo scoppio della Seconda intifada, non a caso chiamata da Arafat come “Jihad per al-Aqsa”, che inizia un vero e proprio revisionismo storico che dall’ANP raggiungerà i paesi arabi e da lì l’Europa e le agenzie Onu. E da allora, che anche diversi ricercatori universitari e giornalisti, soprattutto europei, iniziarono a riferirsi al Monte del tempio con l’espressione “dove si presume” ci fosse il tempio ebraico. Da quel momento millenni di storia, reperti archeologici, testi e testimonianze vengono messi in discussione “acriticamente” per compiacere il raiss.

Sono numerose le similitudini tra l’intifada di Arafat e quella voluta da Amin al-Husseini nel 1929, che portò anche al massacro della millenaria comunità ebraica di Hebron. In entrambi i casi la scusa fu un presunto tentativo degli ebrei di modificare lo status quo di Gerusalemme. Ma a quale status quo si riferiva Arafat e successivamente le innumerevoli risoluzioni ONU? Al periodo di occupazione giordana. E’ importante ricordare che durante il periodo di occupazione giordana, tra il 1948 e il 1967, gli ebrei che vivevano da secoli nella città vecchia e nella zona est della città furono vittime di una vera e propria pulizia etnica. Inoltre, agli ebrei fu vietato recarsi nella città vecchia nonostante gli accordi per il cessate il fuoco sottoscritti dai giordani dicessero esattamente il contrario. Oltre a ciò, i giordani vietarono non solo agli “israeliani” ma a tutti gli ebrei del mondo ogni possibilità di recarsi al Kotel. Per ottenere il visto di ingresso in Giordania era obbligatorio compilare un modulo dove bisognava indicare la religione professata. E’ superfluo rimarcare che agli ebrei non era concesso il visto d’ingresso. Non risulta che alcuna organizzazione mondiale abbia eccepito alcunché.

Il punto più basso del revisionismo storico e dell’attacco all’appartenenza ad Israele della città lo si è visto con le già citate risoluzioni dell’UNESCO (aprile e ottobre 2016) e con la Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza del dicembre 2016. Questa risoluzione fu fortemente voluta dall’ormai uscente amministrazione Obama, in modo particolare dal Segretario di Stato John Kerry.

Un parziale aggiustamento della posizione americana lo si è avuto con l’amministrazione Trump e la sua decisione di spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme riconoscendo così implicitamente il suo ruolo di capitale di Israele. E’ da sottolineare che questa decisione non è stata una “improvvisazione” di Trump, come molti giornalisti hanno scritto, bensì fu la ratifica presidenziale di una legge – the Jerusalem Embassy Act – approvata nel lontano 1995 dal Senato, con una maggioranza di 95 a 3, e dal Congresso, con una maggioranza di 347 a 37, ma sempre disattesa e rinviata dai presidenti che lo avevano preceduto.

 

 

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