Editoriali

Gli interessi degli Stati Uniti non sono gli interessi di Israele

Chiedere a Israele il cessate il fuoco invocato da mesi dall’ONU e dalla galassia “pacifista” della Palestina “libera dal fiume al mare”, comporterebbe per Joe Biden e i suoi consiglieri un rischio troppo grande in termini politici. Nonostante la frangia radicalizzata del partito Democratico e una parte del suo elettorato, l’appoggio a Israele è, negli Stati Uniti, maggioritario. Donald Trump, il presidente americano più filoisraeliano del dopoguerra, si vedrebbe consegnato su un vassoio d’argento un formidabile corpo contundente da usare contro il presidente in carica.

C’è un altro modo tuttavia per giungere allo stesso risultato, obliquo, subdolo, ed è quello di ottenere una pausa protratta dell’operazione militare a Gaza. Tre, quattro, forse più mesi, in cambio del rilascio degli ostaggi ancora detenuti da Hamas. A quel punto l’operazione militare sarebbe terminata, perché per Israele sarebbe praticamente impossibile riprenderla, e Hamas resterebbe a Gaza come futuro partner per un accordo che preveda un suo ruolo nel governo dell’enclave.

L’agenda americana è esplicita ed è sempre più determinata dalla contesa elettorale interna che, nei prossimi mesi, entrerà nel vivo: fare finire la guerra legando questo esito alla liberazione degli ostaggi, scongelare l’intesa tra Arabia Saudita e Israele, predisporre il venire in essere di uno Stato palestinese. Vaste programme, che ha la magnifica ambizione di consegnare a Joe Biden la corona d’alloro di pacificatore del Medio Oriente, di nation builder. Un successo clamoroso di politica estera da spendere copiosamente tra gli elettori.

Il fatto che ciò significhi per Israele il dovere lasciare Gaza senza avere conseguito l’obiettivo principale della guerra in corso, la smilitarizzazione di Hamas, la fine del suo governo e il determinarsi di condizioni fondamentali di sicurezza per i cittadini israeliani residenti nei dintorni della Striscia, è considerato secondario. Tuttavia c’è un problema da risolvere, ed è la resistenza di Netanyahu, il quale ha perfettamente chiaro l’obiettivo americano e sa benissimo che per Israele, per il suo interesse a breve e lungo termine, il piano americano è irricevibile. È necessario quindi prendere tempo, surfare da scaltro e navigato giocatore tra dichiarazioni muscolari sulla irrevocabilità dell’obiettivo di sconfiggere Hamas, sulla non disponibilità alla nascita di uno Stato palestinese e sul governo della Striscia da parte della cleptocrazia di Fatah, connivente con Hamas e, al contempo, lodare gli Stati Uniti per l’impegno profuso e la vicinanza. Ma Netanyahu sa benissimo che si sta lavorando, e non da adesso per rimuoverlo dalla scena, sa benissimo che a porte chiuse Biden lo ha insultato, come avvenne all’epoca di Obama con il celebre chicken shit, merda di gallina a lui rivolto, sa benissimo che dietro gli abbracci e i sorrisi c’è il pugnale, come sa altrettanto bene che in Israele, Biden può contare su militari e politici dell’opposizione che, come lui, vorrebbero defenestrare Netanyahu e hanno già concluso che la vittoria su Hamas non è la priorità, ma lo è la liberazione degli ostaggi, Benny Gantz in testa.

Senza una vittoria netta di Israele a Gaza verrebbe meno il senso stesso dell’operazione militare, che non è mai stato, non può essere, per quanto duro e doloroso sia evidenziarlo, la liberazione degli ostaggi, non è, in altre parole l’obiettivo umanitario, ma è sconfiggere l’efferata organizzazione criminale che il 7 ottobre scorso ha perpetrato il più grande eccidio di ebrei dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi. Senza una vittoria netta di Israele a Gaza, e fuori da ogni retorica, la morte in combattimento di oltre duecentocinquanta soldati dell’IDF, le cui vite non valgono certo meno di quelle degli ostaggi, sarebbe stata un sacrificio inutile.

Netanyahu, il premier dalle molte morti annunciate e dalle altrettante clamorose resurrezioni, deve combattere con un avversario potente e cinico, che ha già mostrato il cambio di registro con il meschino dispositivo punitivo nei confronti di quattro coloni considerati alla stregua di pericolosi criminali. “La violenza intollerabile” dei coloni, come recita il dispositivo, è nulla più che una oscena esagerazione rispetto a quella ben più violenta e omicida dei palestinesi che da anni si manifesta con regolarità in Cisgiordania.

È il primo segno del bastone da calare su Israele, ne verranno altri, bisogna prepararsi e tenere duro. Gli interessi americani non sono quelli di Israele.

 

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