Editoriali

Il cadavere di Oslo

Terra in cambio di pace. Era questo il presupposto con il quale il trio composto da Shimon Peres, Yitzhak Rabin e Yossi Beilin confezionò il 13 settembre di trent’anni fa la polpetta avvelenata degli Accordi di Oslo.

“Ventitré anni dopo il suo euforico varo sul prato della Casa Bianca, il ‘processo di pace’ di Oslo, tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), si staglia come una delle peggiori calamità che abbiano afflitto il conflitto israeliano-palestinese”. scriveva nel 2016, Efraim Karsh in un suo articolo apparso sul “Middle East Quarterly”, dal titolo eloquente Why the Oslo Process Doomed Peace. 

Nell’articolo, lo storico israeliano, professore emerito al Kings College di Londra, scandiva implacabilmente le funeste modalità di questa calamità, dal costo pagato in vite umane da Israele (1600 cittadini, più 9000 feriti), al rebranding di Yasser Arafat, (all’epoca ridotto a poco meno di un reietto e confinato a Tunisi), come nation builder, all’installazione nel cuore di Israele di una organizzazione terrorista tra le più sanguinarie del pianeta.

A rincalzo di Karsh, cinque anni fa, in una intervista esclusiva per l’Informale, Martin Sherman, tra i più acuti analisti politici israeliani, specificava:

“Il processo di Oslo è stato un fallimento previsto. Chiunque possedesse una conoscenza minima di elementi base di scienza politica o di discipline connesse come relazioni internazionali o teoria dello Stato nazione, sapeva che non avrebbe mai potuto funzionare. Negli anni Novanta si poteva finire in carcere per sostenere una soluzione politica sulla linea di Oslo, era considerato tradimento. Quello che sono stati capaci di fare è stato di acquisire una posizione che non solo era marginalizzata ma era anche illegale e trasformarla nel principale paradigma politico non solo a livello internazionale ma anche qui in Israele. Dunque non posso che essere d’accordo con Karsh nel giudicare Oslo un disastro. Posso solo sperare che si sbagli quando dice che è un disastro inestirpabile, in altre parole, irrevocabile”.

Gli Accordi nascevano dalla folle scommessa che un terrorista musulmano cacciato progressivamente da buona parte del Medioriente, dall’Egitto, dalla Siria, dal Libano, dalla Giordania e dal Kuwait, e riparato a Tunisi dove sarebbe stato condannato all’irrilevanza, avrebbe potuto trasformarsi in un partner per la pace.

Sotto l’egida degli Stati Uniti, che avevano riconosciuto l’OLP come interlocutore nel 1988, quando Ronald Reagan era allo scadere del suo secondo mandato, Arafat venne ripescato dal cono d’ombra e di discredito in cui si era cacciato.

Shimon Peres, il principale promotore degli Accordi, sognava ad occhi aperti un Medioriente in cui si sarebbe inverata laicamente la profezia escatologica di Isaia.

“Un Medio Oriente senza guerre, senza nemici, senza missili balistici, senza testate nucleari…un Medio Oriente che non è un campo di sterminio ma un campo di creatività e crescita“.

L’utopia di Peres, non era quella che animava Rabin, più circospetto ad abbracciare come partner per la pace Arafat, ma alla fine diventò anche lui parte sostanziale in causa nel sostenere gli Accordi, e continuò a farlo nonostante tutte le circostanze in cui il padre e padrone dell’OLP confermava la sua vera natura di lupo travestito da agnello.

C’era forse solo un punto effettivo sul quale i due principali fautori degli Accordi di Oslo convergevano, ed era la contrarietà alla nascita di un vero e proprio Stato palestinese autonomo. Per Rabin, avrebbe dovuto essere un’entità poco meno di uno Stato, mentre per Peres l’idea era che al suo posto nascesse una confederazione giordana-palestinese. Ciò non ha impedito che la formula dello Stato autonomo, sulle colline della Cisgiordania, sia rimasta in auge per trent’anni, come l’unico paradigma contemplabile, l’unica soluzione sulla strada della pace.

Sempre Martin Sherman ha elencato, in un articolo del 2018, alcune delle conseguenze nefaste prodotte dagli Accordi:

“Senza Oslo non ci sarebbe stata la seconda Intifada, non ci sarebbe stato il Disimpegno israeliano, non ci sarebbe stato lo sradicamento delle comunità ebraiche a Gush Katif, non ci sarebbe stata l’acquisizione di Gaza da parte di Hamas, non ci sarebbero stati i tunnel del terrore, né gli arsenali con i temibili razzi lanciati in direzione delle città e dei villaggi israeliani molto distanti da Gaza”.

Sarebbe ora, a trent’anni dalla sua decomposizione, di seppellirne il cadavere definitivamente.

 

 

 

 

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