Ebraismo

Nostalgia e ironia: scrivere contro l’oblio

A seguito dell’incontro che si è tenuto a Torino al Circolo dei lettori il 12 settembre, a vent’anni dalla scomparsa di Sion Segre Amar, e a cui hanno partecipato tra gli altri, Carlo Ginzburg e David Meghnagi pubblichiamo l’intervento di Davide Cavaliere.

Tra i relatori presenti sono, forse, l’unico a non aver conosciuto personalmente Sion Segre Amar. Il mio unico contatto con lui mi viene dai suoi libri, ma ritengo che questo non sia un limite, non di rado, infatti, i narratori si rivelano maggiormente nelle loro opere che non nella vita quotidiana. Dirò subito che Sion Segre Amar è stato un meraviglioso scrittore di racconti, di quelli che non si scrivono più, involontario maestro di quello che, personalmente, considero uno dei più difficili generi letterari, nel quale si sono cimentati con profitto solo pochi grandi. I suoi ritratti della vita ebraica torinese degli anni Venti e Trenta non hanno nulla da invidiare ai racconti di Bernard Malamud o Philip Roth sulle comunità ebraiche della provincia americana. Sono scritti in un linguaggio brillante e coinvolgente, autenticamente elegante, ossia capace di tenere insieme bellezza e semplicità. Vi prego di considerare questo breve brano: 

“E così, quel giorno che ti proposi di studiare insieme nel grande giardino botanico all’ombra della catalpa dagli stigmi eccitabili – eccitabili come me; e che caldo, che sudata! – la lezione era finita più presto del consueto, a casa non ci aspettavano, e accettasti. Bene; quella volta andavo sul sicuro: il bacio non me lo avresti negato. Non me lo negasti infatti. Ed era di quelli che conoscevo io: inesperti, passivi, concessi e non ricercati. Quelli che credevo riunissero già in sé tutti i godimenti del paradiso, le impurezze dell’inferno, le vergogne dell’impudicizia, i segreti dell’amore”. 

Queste poche righe, per quanto mi riguarda, condensano lo stile di Sion Segre Amar: inquieto e riflessivo, talvolta malizioso, costantemente pervaso da un’ironia ora pungente ora difensiva, che mi ha ricordato un altro grande dimenticato della letteratura italiana: Augusto Monti. Possiede il carisma dell’ironia; il suo atteggiamento è distaccato e divertito. Come pochi è capace di porre una corretta distanza tra sé stesso e i fatti della vita, di ridere amaramente dei propri difetti come degli eventi tragici, cito dal racconto “Dell’utilità di chiamarsi Sion”: 

Vado al Municipio, all’Ufficio Razza, per i documenti del passaporto. Non mi chiedono neanche se sono ariano. Basta il nome […] Segre Amar Sion, di razza ebraica. Bollato per l’eternità. Dal cognome, dal nome, dalla primogenitura. Neppure bisogna chiedermi se uno almeno dei quattro nonni fosse ebreo, secondo le leggi di Norimberga”. 

Fatte le dovute considerazioni stilistiche, passerei ora a quelli che mi sono sembrati essere i temi principali dei suoi lavori. Primo fra tutti, la nostalgia dell’ebraismo piemontese. Dico piemontese e non italiano perché qua, in questa regione, si era realizzata una curiosa sintesi ebraico-piemontese, soprattutto linguistica, a cui anche Primo Levi accenna nel primo racconto de “Il sistema periodico”, intitolato “Argon”. Gli ebrei del Piemonte hanno un forte senso della loro identità, la loro comunità, come scrive il nostro autore, è fiera di essere “la più vicina, non solo geograficamente, alla Francia dei sacri principi dell’89”. Si è a lungo, e giustamente, pianto sulla disintegrazione della cultura yiddish dell’Europa orientale, ma la barbarie nazista ha cancellato anche questo singolare universo ebraico. 

Gli ebrei torinesi della giovinezza di Sion, e qui arrivo al secondo tema, la nostalgia per il “mondo di ieri” della civiltà borghese e liberale, a cui gli ebrei partecipavano con speranza. In tal senso reputo significativo quanto descritto nel racconto intitolato “Il nostro amatissimo sovrano”, dove Sion Segre riferisce della benedizione che, ogni sabato, gli ebrei torinesi pronunciavano in favore del Re, a porte aperte, affinché “l’ignaro goi di passaggio, col berretto in mano in segno di chiesastico rispetto, accanto al sibilante portone”, possa comprendere “quali fedeli sudditi” siano i suoi connazionali israeliti. La fiducia in questa “età dell’oro della sicurezza” non è incrinata da nessuno di quei piccoli episodi di antisemitismo che costellano l’infanzia e la prima giovinezza del giovane Sion, la cui madre soleva affermare con decisione che “adesso gli uomini sono buoni e noi ebrei siamo diventati come gli altri”. Una tolleranza che ben s’incarna nella soffusa e tiepida immagine di una vetrina di via Roma, dove sono esposte “le stelle di Davide mescolate alle madonne, le mezuzot alternate ai cuori di corallo”. Altro simbolo di questa civiltà tollerante e progressista, è il padre di Sion Segre, un proprietario terriero illuminato, fiducioso nella tecnica, sionista, lettore persino dell’”Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci, perché convinto che tutte le idee vadano ascoltate. Poi, sarebbero arrivate, con prepotenza, le ideologie che avrebbero non solo definitivamente cancellato questo mondo liberale, ma anche inquinato la futura storia repubblicana. Credo che meriti di essere citato il racconto “Saluto al Duce”. All’età di quindici anni Sion si reca al funerale di un professore, la cui bara, calata nella fossa, viene salutata con un vigoroso, quanto fuori luogo, “Saluto al Duce”. Anni dopo, il feretro di un amico di famiglia sarà omaggiato dai pugni chiusi sollevati. 

Sion Segre Amar ha, come Primo Levi, la consapevolezza di aver vissuto anni unici, certamente oscuri, ma anche avventurosi. Scrive perché sente di doverli salvare dall’oblio e dal dubbio che sopraggiunge col tempo. I racconti, infatti, sono una continua rielaborazione del passato; uno stesso episodio viene letto da prospettive e angolature differenti. Credo di poter affermare che tutta l’opera di Sion Segre Amar sia un confrontarsi con la storia e con il proprio ruolo in essa, oltre che con la Shoah, dalla quale, per sua definizione “è stato risparmiato seppur toccato in cari affetti” e “segnato nella personalità”. 

I primi due libri di Sion Segre Amar, “Sette storie del Numero 1” (1979) e “Cento storie di amore impossibile” (1983) affrontano di sfuggita il tema della persecuzione antisemita, sono libri tutto sommato sereni, persino l’ascesa del fascismo è osservata con sguardo ironico (seppur con crescente disagio); penso al modo in cui racconta l’epidemia di cimici, non il fastidioso insetto, ma la spilla del partito fascista appuntata all’occhiello. Con “Il mio ghetto” (1987) “Lettera al Duce” (1994), invece, affronta direttamente i momenti più difficili della sua vita: l’antisemitismo, l’arresto presso Ponte Tresa per propaganda antifascista, il carcere, l’amicizia con Leone Ginzburg, ricordato non solo nella veste di compagno di cella a Regina Coeli e di energico intellettuale, ma anche in quella, inconsueta, di uomo di mondo, capace di stappare la bottiglia di champagne “senza fare lo scoppio” e riempire le coppe “senza che ne debordi la schiuma”. Sion e Leone si troveranno in cella insieme a dispetto del regolamento carcerario, che vietava la coabitazione di soli due detenuti per scoraggiare atti omoerotici. Consapevole della situazione anormale, Leone scherzosamente dirà che si è fatta una deroga in virtù della sua “bruttezza”, sollevando così il morale di un Sion incupito dal carcere. 

Vorrei concentrarmi un attimo sulla “Lettera al Duce”. Spinto solo da una necessità interiore, l’autore confessa di aver scritto una lettera, seppur confusa, a Mussolini nel tentativo di ottenere la grazia in seguito all’arresto. Si tratta della lettera di un giovane disperato, picchiato dalla polizia, interrogato nonostante gli avessero rotto il naso con un pugno, a cui sono impediti i contatti con l’esterno, orfano di entrambi i genitori. Certo, è una lettera che vorrebbe essere ambigua, che si presti a una duplice lettura, un pentimento strumentale, ma comunque una “lettera al Duce”. Ho l’impressione che Sion Segre Amar abbia scritto questo libro per essere ascoltato, non giustificato, per svestirsi dei panni dell’eroe antifascista, per passione antiretorica e umiltà. Il libro termina così: “1925: Nella sezione A della prima classe del Liceo Massimo D’Azeglio siamo una trentina di allievi. Almeno tre di noi, il 10 per cento, scriverà una lettera al duce. 1933: Quanti correi, che oggi tacciono per morte naturale o civile, abbiamo avuto nel ventennio?”. Vi vedo qui una sottile polemica contro un certo antifascismo di maniera, manicheo, usato come trampolino di lancio per rispettabili carriere o patente di prestigio. Non eravamo eroi senza macchia né paura, sembra dire l’autore, ma semplici uomini, non privi di debolezze (lui fu assai meno debole di altri, ma era troppo severo con sé stesso per ammetterlo). Sion Segre Amar nutrirà sempre un sospetto verso la retorica antifascista, soprattutto di quella espressa “a posteriori”. Una convinzione che gli deriva dalla convivenza carceraria con Leone Ginzburg: “Mi insegna anche che l’antifascismo non esiste: esistono il socialismo, il comunismo, il liberalismo. Quella parola, oggi di moda, resterà così bandita dal mio vocabolario”. Sion Segre Amar ha subito il destino di tutti gli uomini politicamente “laici” nell’Italia delle Chiese parallele: l’oblio. 

Vorrei concludere questo intervento prendendo in esame il suo ultimo, breve, racconto, intitolato “Amico mio e non della ventura”, ispirato da “L’amico ritrovato” di Fred Uhlman. E’ il racconto di un’amicizia, quella tra l’autore e Guido, spezzata a un certo punto dall’apparente indifferenza di quest’ultimo alla carcerazione dell’amico e dal rifiuto di Sion Segre di ascoltare le sue ragioni. I due si ritroveranno al termine della guerra, riprendendo il filo di una conversazione interrotta anni prima. Una foto li ritrae, a braccetto e sorridenti, in una via di Roma. Siamo in presenza di un libro gioioso, intendendo con questo aggettivo non una euforia acefala, bensì il sentimento di serenità di colui che conosce gli aspetti crudeli del mondo, li attraversa e li assolve. E’ un ritrovarsi, per l’appunto, gioioso, definitivo, purificato dalle reciproche incomprensioni. Credo che, con questo piccolo libro, Sion Segre si sia fatto la sua “pace separata”, conciliandosi una volta per tutto col suo passato e con quello di questa nazione, con i suoi momenti di coraggio e di codardia. In questo Paese senza memoria, ha fatto i conti con la storia e quando un uomo come Sion Segre tira le somme, è come se lo facesse anche un po’ per noi. 

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