Antisemitismo, Antisionismo e Debunking

Il giudice e il capitano Dreyfus

Nel suo ufficio al settimo piano del Palazzo di Giustizia a Milano, il giudice Guido Salvini teneva il ritratto del capitano Alfred Dreyfus. Quel ritratto forse è ora nel suo nuovo ufficio di Gip al Tribunale di Milano. Quella storia, quel monito, comunque lo accompagnano, se il magistrato che istruì il processo per la strage di Piazza Fontana ha fatto sentire la sua voce cosciente, dopo che a Piazza Cavour, a Milano, a due passi dalla Questura e dallo stesso Palazzo di Giustizia, un coro di antisemiti nei giorni scorsi ha scandito  indisturbato il grido di guerra: “Ricordatevi di Khaybar, ebrei. Khaybar, Khaybar, o ebrei, l’armata di Maometto ritornerà”.

Il richiamo violento è all’oasi dove l’orda maomettana cui il Profeta aveva affidato lo stendardo dell’Islam completò nel 627 e.v. lo sterminio della popolazione ebraica della Penisola arabica, distruggendo una presenza atavica e  fiorente, che abitava felice quelle terre senza volersi piegare alla predicazione politico-religiosa totalitaria e all’imposizione di una fede e di un capo non suoi; decapitando uomini, stuprando donne sotto gli occhi dei loro mariti e schiavizzandole con i bambini, assoggettando poi con il pizzo sistematico e la minaccia di espulsione i pochi sopravvissuti.

Quel grido accompagna da sempre gli assalti delle masse arabe, guidate e incitate dalle  massime autorità religiose islamiche, contro al Yahud, l’ebreo. Esso fu scandito in terra d’Israele sin dagli anni Venti del secolo scorso, insieme al versetto “Itbah al Yahud”, macellate l’ebreo,  e alla promessa “Nashrab dam al Yahud”, berremo il sangue degli ebrei, che  il celebre cantore della hunayn, della nostalgia, dell’orgoglio e dell’immaginario  arabo-palestinese, il poeta Maḥmūd Darwīsh, aveva ben introiettato quando scriveva in versi: “La carne degli ebrei sarà il nostro cibo”, e poi spiegava che no, egli non odiava gli ebrei, sebbene non avesse alcuna ragione per amarli.




L’incendiario  austriaco nato nella Locanda del Pomerano e divenuto poi Führer  conosceva questo sventurato afflato, questa propensione alla morte, all’annientamento. Per questo, presagendo la sua fine nera nella catastrofe della Germania da lui provocata con la guerra e con  la Shoah del popolo ebraico, la cui soluzione finale anche in Palestina il Gran Muftì Amin Al Husseini aveva impetrato al suo cospetto, pronunciò la sua maledizione:- L’Islam mi vendicherà.

A Milano c’è la consigliera comunale Sumaya Abdel Qader, che adora i Queen ma indossa il velo di Al Banna, l’organizzatore insieme a Al  Husseini delle milizie brune arabo-hitleriane; e poi, in occasione del 25 Aprile, di fronte alle minacce dei fasulli pacifisti e antifascisti in kefiah alla rappresentanza della Brigata ebraica, ci viene ad ammannire la spiegazione pietosa, fuori dalla storia a anche da qualunque attestato di licenza di terza media, che lei sarebbe la prima a sfilare in corteo sotto le insegne della Brigata ebraica, se i partecipanti assicurassero di non voler avere niente a che vedere, a che fare con Israele.

Il sindaco Sala, al quale il giudice Salvini chiede attenzione reale sull’antisemitismo, non si prende neanche la briga di spiegare alla sua consigliera, in parole povere, che la Brigata ebraica venne dalla terra d’Israele al seguito degli Alleati, a combattere, con i colori  del futuro stato d’Israele,  contro il nazismo. A liberare  anche l’Italia occupata dai disciplinati scherani  di colui che le masse arabe chiamavano “il nostro eroe”, mentre marciavano con le gigantografie di Hitler al petto, incendiavano sinagoghe e mercati nelle piazze di Safed, o di Gerusalemme, o di Giaffa, incitate dagli imam saliti sin sulle torri dei muezzin a invogliare le folle a gridarlo che sì, “Hitler è il nostro eroe, gli ebrei sono i nostri cani, e noi berremo il loro sangue”.




A Milano c’è anche un Davide Piccardo, figlio di quel Roberto Hamza Piccardo ai vertici dell’Ucoi che qualche tempo fa  tradusse e perfezionò chiose antigiudaiche all’edizione del Corano da lui curata, adottando in seguito l’opportunismo politico nel chiedere scusa ma continuando a paragonare Israele alla Germania nazista. Il figlio di tanto padre, consigliere dell’ex sindaco Pisapia per gli affari islamici, uno che ogni tanto un bicchiere di vino non se lo lesina – dice –  e questa è una garanzia di mediazione, dopo l’assalto islamico alla sinagoga di Parigi nel luglio del 2014 scrisse un soddisfatto post di questo tenore: “La pacchia è finita”. Come la sua collega di partito Sumaya, il figlio di papà Hamza, convertito  anche lui all’Islam paterno non del tutto dimentico  delle simpatie per il marxismo degli anni di piombo, ignora  che la pacchia per gli ebrei, a Parigi, in Francia, in Europa e nel mondo, non è mai iniziata.

Se c’è qualcosa che inizia, semmai, è  qualcosa che ricomincia, come ricordava Raymond Aron quando scriveva, nella Francia gollista, per le stesse ragioni di oggi, per la stessa corrente antisemita lungo la quale risalgono violenti, ora come allora, il linguaggio, le scuse, il rifiuto intramontabile dell’esistenza dell’ebreo: “Tout devient possible, tout recommence”. Ma a Milano, per fortuna, c’è un giudice che offre la lezione dreyfusarda a una società, a generazioni immemori, irresponsabili, colpevoli di quanto accade, di quanto ricomincia, di nuovo, ogni volta, in nome della Palestina Judenfrei, metafora diuturna e autodistruttiva di un mondo pervicacemente desiderato senza ebrei.

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