Editoriali

Il Treno della Storia

Il 7 maggio scorso, il New York Times pubblica un articolo di Daniel Pipes, nel quale lo studioso americano spiega perchè, dal suo punto di vista, l’annessione dei territori in Cisgordania (Giudea e Samaria) sarebbe un errore.

Secondo Pipes questo passo potrebbe rischiare di rompere la tregua tra Israele e Stati arabi limitrofi, che in virtù del comune obbiettivo di contenere l’Iran, hanno assunto recentemente nei confronti dello Stato ebraico. Un passo di questo tipo non sarebbe legalmente riconosciuto da nessun altro paese oltre gli Stati Uniti e avrebbe dunque un valore eminentemente simbolico oltre a incrementare ulteriormente il numero di arabi palestinesi che assumerebbero la cittadinanza israeliana. Non solo, esso alienerebbe l’appoggio del Partito Democratico nei confronti di Israele e rischierebbe di compromettere il rapporto con Donald Trump, poichè il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha specificato che una eventuale annessione del 30% dei territori deve avvenire nel contesto di negoziati con i palestinesi.

Sul Middle East Forum, di cui Pipes è presidente, Gregg Roman, direttore del think tank, ha pubblicato un articolo di segno opposto sostenendo che questa annessione è necessaria e utile e utile per un motivo fondamentale, determinerebbe, infatti, una svolta nel prolungato stallo del cosiddetto processo di pace, sempre frenato dagli arabi innietando una buona dose di realtà in un conflitto che dura da cento anni.

La realtà è che i territori della Cisgiordania dove sono ubicati gli insediamenti ebraici, sostanzialmente l’Area C, sono e resteranno di Israele e sono e resteranno di Israele in base a ciò che stabiliva il Mandato Britannico per la Palestina del 1922, il quale assegnava interamente tutti i territori a occidente del fiume Giordano agli ebrei. Tutti. Purtroppo, dopo gli sciagurati Accordi di Oslo del 1993-1995, Israele concesse ad Arafat due segmenti della Cisgiordania, l’Area A e B, sui quali, in futuro sarebbe dovuto sorgere uno Stato palestinese.

In virtù di ciò, oggi, Israele può rivendicare legittimità solo su una porzione ridotta di quei territori originariamente assegnatoli e questo grazie alla “lungimiranza” di Yitzhak Rabin e Simon Peres, anche se va dato atto che Rabin, nel suo ultimo discorso alla Knesset un mese prima della sua uccisione, (discorso che Gregg Roman ricorda nel suo articolo), dichiarava che “Il confine di sicurezza dello Stato di Israele sarà situato nella Valle del Giordano, nel senso più ampio di quel termine”. Ovvero, esso avrebbe incluso “Gush Etzion, Efrat, Beitar e altre comunità, la maggior parte delle quali si trova nell’area ad est di quella che era la Linea Verde, prima della Guerra dei Sei Giorni”.

L’annessione non farà dunque che confermare la volontà allora espressa da Rabin, ma cosa ancora più rilevante, renderà esecutivo, dopo novantotto anni, il dispositivo del Mandato Britannico per la Palestina, l’unico documento che sul piano del diritto internazionale ha un valore legale vincolante, alla stregua di quello di un trattato.

Daniel Pipes si preoccupa, comprensibilmente, delle reazioni internazionali che questa mossa comportrebbe, ma sembra dimenticare che ogni volta che Israele ha difeso autonomamente le proprie prerogative e il proprio status, soprattutto negli ultimi anni difendendosi dagli attacchi di Hamas, o in concerto con gli Stati Uniti, quando Trump ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele o ha riconosciuto la sovranità di Israele sopra le Alture del Golan, la comunità internazionale, araba e occidentale, ha reagito come ha sempre fatto, contestando e rigettando queste azioni.

Dunque, allo stato dei fatti non cambierebbe assolutamente niente. L’ostilità e il pregiudizio contro Israele permarrebbe inalterato. Gli Stati sunniti forse protesterebbero ma sarebbe una protesta unicamente formale, senza conseguenze, come accadde quando Trump dichiarò Gerusalemme capitale di Israele o riconobbe la sua sovranità sopra il Golan e alcuni sostennero che si sarebbe infiammato il Medio Oriente.

Relativamente al fatto che il Dipartimento di Stato abbia esortato il governo israeliano a negoziare l’annessione con i palestinesi, questa esortazione, che non troverebbe alcun consenso da parte palestinese, si trova in contrasto con ciò che il Piano di pace promosso dall’amministrazione Trump prospetta, ovvero il diritto di Israele di annettersi gli insediamenti in Cisgiordania senza alcun prerequisito per poterlo fare.

E’ questo, in effetti, un aspetto che va risolto. Se vale ciò che il Piano di pace prevede, dove è scritto chiaramente che uno Stato palestinese potrà venire in essere solo dopo che verrà riconosciuta la legittimità esistenziale di Israele e Hamas e altri gruppi terroristici avranno rinunciato all lotta armata, oppure se si devono ancora aprire inutili tavoli negoziali con chi ha sempre rifiutato a Israele il diritto all’esistenza.

In Cisgiordania, nell’Area C, ci sono attualmente tra i 180,000 e i 300,000 arabi palestinesi, la cifra non è determinata con certezza. Israele ha attualmente una popolazione di 1,890,000 arabi. Se dovesse incrementare di 200,000 o anche 300,000 unità l’incremento non creerebbe un problema rilevante. Ma in realtà si tratta di un falso problema perchè secondo il Piano di pace proposto da Trump ai palestinesi presenti nell’Area C verrà proposto di scegliere se diventare o meno cittadini israeliani e non è certo automatico che tutti accettino di diventarlo.

Per quanto concerne il partito Democratico americano e il fatto che nell’annettersi il 30% dei territori della Cisgiordania, Israele si alienerebbe la sua simpatia, peraltro già notevolmente compromessa, purtroppo è un rischio che Israele deve correre anche se un domani, nella dinamica dell’alternanza, ci dovesse essere nuovamente un presidente democratico alla guida degli Stati Uniti.

Decisioni essenziali per lo statuto di Israele, per la sua configurazione e dimensione, (e la questione dei territori della Cisgiordania dove vivono attualmente 391,000 ebrei a cui è conferito uno status a parte, rientra in questo ambito), non può dipendere, in ultima analisi, dalla simpatia o antipatia di questa o quella amministrazione americana, o da uno dei due schieramenti politici d’oltreoceano.

Nel corso della lunga e problematica relazione intercorsa con gli Stati Uniti, costellata da alti e bassi, da aperture e da ostilità, Israele gode oggi dell’appoggio pressochè incondizionato di una amministrazione che, come nessun’altra prima, gli ha concesso ciò che gli spettava.

Novantotto anni sono un tempo fin troppo lungo per avere aspettato un treno che forse non passerà mai più.

 

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