Interviste

“La politica di Israele dovrebbe essere la vittoria”: Intervista a Daniel Pipes

A proposito dell’attuale conflitto tra Israele e Hamas, L’Informale ha intervistato due tra i massimi esperti internazionali di Medio Oriente e di Israele, Daniel Pipes, storico, fondatore e presidente del Middle East Forum, l’infuente think tank americano con base a Philadelphia, e Martin Sherman, già Consigliere ministeriale di Yitzakh Shamir e fondatore e direttore esecutivo dell’Istituto per gli Studi Strategici Israeliano. Ad entrambi abbiamo posto domande analoghe. Oggi è il turno di Daniel Pipes.

Professor Pipes, il conflitto tra Israele e Hamas ha portato a un nuovo fenomeno: rivolte diffuse da parte dei cittadini arabi di Israele. E’ d’accordo con la valutazione del 2004 dello storico israeliano Benny Morris secondo cui gli arabi israeliani sono una “bomba a orologeria”?

Assolutamente. Ho cominciato a scrivere sugli arabi israeliani fin dal 1986 e dal 2006 ho sostenuto che rappresentano il “nemico finale” di Israele e un “pericolo esistenziale”. Dopo che stati stranieri e palestinesi esterni saranno stati neutralizzati, i cittadini arabi di Israele rimangono il nemico che non può essere sconfitto ma dovrà essere integrato, un compito molto più difficile.

Secondo alcuni gli attuali scontri hanno consentito a Hamas di raggiungere il suo obiettivo di lunga data, quello di sostituire Fatah come la principale organizzazione palestinese volta all’eliminazione di Israele. E’ così?

Ne dubito. Fatah e le sue organizzazioni collegate (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e l’Autorità Palestinese) godono di una legittimità interna a Israele e a livello internazionale che manca a Hamas, consentendo loro accesso a denaro e altri mezzi di sostegno che per Hamas non sono disponibili. Hamas può ostacolare Fatah ma non può sostituirlo.

Sembra che l’attuale conflitto con Hamas, come quelli del passato, finirà con un cessate il fuoco. È inevitabile o esiste una via di uscita alternativa?

Essendo questo il quarto grande confronto di Israele con Hamas, dopo quelli del 2008-2009, del 2012 e del 2014, molti israeliani sono determinati a non ripetere gli scenari precedenti che hanno condotto a un armistizio e poi a rinnovati combattimenti. L’alternativa principale consiste in un’invasione di terra che consenta alle forze israeliane di riprendere e governare Gaza. Tuttavia, questa alternativa pone gli stessi problemi irrisolvibili del 2003, quando Ariel Sharon decise di ritirarsi unilateralmente dal territorio: gli abitanti di Gaza infliggeranno agli israeliani  una sofferenza che vogliono evitare. Anche altri schemi comportano grossi problemi dal punto di vista di Israele. Ripetute incursioni porterebbero a massicce condanne internazionali e persino interne; così come imporre un proprio uomo forte condurrebbe probabilmente  all’antisionismo. Di conseguenza, sì, il cessate il fuoco è l’esito più probabile.

Lei ha criticato a lungo gli israeliani per non aver cercato la vittoria, vale a dire imporre la loro volontà ai palestinesi. E’ un problema ancora attuale?

Più che mai, sì. Come sottolinea Sima Shine dell’ Istituto israeliano per gli studi sulla sicurezza nazionale in merito alla posizione di Israele nei confronti di Gaza: “Non esiste una politica”. Suggerisco che la politica di Israele dovrebbe essere la vittoria, vale a dire l’imposizione della sua volontà al nemico, convincendo gli abitanti di Gaza che hanno perso la guerra, che non possono raggiungere il loro obiettivo bellico di eliminare lo Stato ebraico. Una volta stabilito questo obiettivo politico, tutte le future azioni israeliane, dagli attacchi militari, a quelli informatici, dall’approvvigionamento dei rifornimenti, alle pattuglie di frontiera, dalla censura, ai premi e alle sanzioni, ecc. – dovrebbero essere viste alla luce di promuoverlo. Gli esempi includono la decapitazione della leadership di Hamas ovunque si trovi, inclusa la Malesia, il Qatar e persino la Turchia; al rifornimento di cibo, carburante, medicine e acqua a Gaza solo quando prevarrà la quiete; alla sponsorizzazione e la riconsiderazione dei precetti coranici relativi al controllo del territorio e al posto  che spetta agli ebrei in Terra Santa.

Molti analisti politici hanno visto gli Accordi di Abramo come l’inizio di una nuova epoca, anche se alcuni, come Martin Sherman, hanno manifestato cautela. Qual è il suo punto di vista?

Ero e resto entusiasta  a proposito degli accordi, soprattutto quello con gli Emirati Arabi Uniti; quelli con il Marocco e il Sudan sono molto più traballanti. Questi accordi fanno parte di una più ampia tendenza al disimpegno dei musulmani da Israele, anche se la sinistra diventa più militante e ostile. Questa tendenza continua, come confermano le condanne rituali degli Stati sunniti.

Ritiene che gli attuali combattimenti influenzeranno in qulache modo il rientro del governo degli Stati Uniti nel JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano?

Quaranta senatori statunitensi hanno fatto appello al presidente affinché interrompa i negoziati con la Repubblica islamica dell’Iran in quanto rifornisce Hamas. Il segretario di Stato Anthony Blinken lo ha respinto. Ciò suggerisce che l’amministrazione Biden non permetterà al conflitto tra Hamas e Israele di dissuaderla dal rientrare nel accordo sul nucleare.

 

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