Israele e Stati Uniti

L’Amministrazione Biden e l’eredità di Obama

L’eccidio del 7 ottobre perpetrato da Hamas nei confronti della popolazione israeliana ha obbligato molti degli attori internazionali a gettare la maschera, in primis l’ONU con le deplorevoli dichiarazioni del segretario generale Antonio Guterres http://www.linformale.eu/il-giustificazionismo/subito dopo l’accaduto e l’ormai evidentemente coinvolgimento dell’UNRWA con Hamas a prova del quale non era necessario attendere i fatti recenti http://www.linformale.eu/il-doppio-lavoro-dei-dipendenti-dellunrwa-sono-anche-dirigenti-di-hamas/. 

In Europa e Gran Bretagna la situazione non è certo migliore, con ampi settori delle sinistre a favore della cosiddetta “resistenza palestinese” e persino forze di polizia e apparati di sicurezza e intelligence alquanto restii nell’intervenire nei confronti di attivisti e predicatori islamici che portano avanti campagne di odio contro Israele e gli ebrei. Basti pensare alla proiezione sul campanile del Big Ben a Londra, poche settimane fa della scritta “From the river to the sea Palestine will be free”, slogan che invoca la cancellazione di Israele. 

Insomma, per chi non ama Israele è sempre più difficile nascondere le proprie posizioni. 

Ultimi in ordine di tempo nel gettare la maschera, ma certamente non ultimi per importanza, sono gli Stati Uniti, o meglio, l’Amministrazione Biden (non sono sinonimi).

Dopo le iniziali pacche sulle spalle e i “siamo con voi”, Washington ha progressivamente assunto posizioni sempre più critiche e ostili nei confronti del governo israeliano, accusato di “esagerare” nella risposta e provando in tutti i modi a mettere i bastoni tra le ruote a Netanyahu, fino al punto di tentare, maldestramente, di informarsi tramite contatti israeliani su come fare per mettere in atto un “regime change” in Israele per sostituire “Bibi” con un profilo più affabile e disposto a genuflettersi alle volontà di Washington. Ciò è chiaramente un gravissimo atto ingerenza nei confronti di uno Stato sovrano, oltretutto anche goffo visto che si è palesato quasi nell’immediato. 

Nonostante ciò, i Democratici hanno rincarato la dose con il senatore Chuck Schumer che in un discorso al Senato ha invocato “nuove elezioni in Israele per sostituire Netanyahu” e con Joe Biden che lo ha spalleggiato definendolo “un buon discorso”. Come fa tra l’altro Schumer ad avere la certezza che nuove elezioni porterebbero a una sconfitta di Netanyahu? Anche questo è da chiarire, a meno che a Washington possano anche prevedere il futuro, cosa da non escludere. 

Una cosa è comunque chiara, l’amministrazione Biden vuole a tutti i costi evitare che Israele eradichi Hamas http://www.linformale.eu/divergenze-sostanziali/ . Perché fermare Israele significa fare sopravvivere Hamas che implica a sua volta farlo vincere. L’organizzazione terrorista palestinese non ha infatti alcuna possibilità di battere l’IDF e la sua unica vittoria sarebbe quella di resistere alla campagna militare israeliana. In sunto, Biden sta chiedendo a Israele di perdere la guerra e questo dopo il peggior eccidio perpetrato nei confronti degli ebrei successivamente alla Shoah. 

Non si tratta di questioni umanitarie e tanto meno operative, visto che l’IDF ha operato a Gaza con modalità tali da evitare il più possibile le vittime civili, utilizzando corridoi umanitari, elargendo aiuti e addirittura avvisando con anticipo le aree da colpire, mettendo così a repentaglio i propri militari e perdendo l’effetto sorpresa. Un modus operandi mai visto prima e che verrà certamente studiato negli anni a venire sui manuali di guerra urbana. (A tal fine, è utile sentire cosa ha detto uno dei maggiori esperti americani di guerra urbana, John Spencer, ai microfoni di Caroline Glick).

Anche il discorso legato alla paura, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali, di perdere il sostegno di quell’ampia fetta di elettorato Dem anti-israeliano e musulmano seppur reale e concreto, è valido fino a un certo punto, in primis perché il sostegno che Biden poteva perdere da quel settore elettorale l’ha già perso; in secondo luogo perché molti elettori Dem, pur di non votare Trump, alla fine opteranno per Biden, magari tappandosi il naso, ammesso e concesso che non subentri un altro candidato al suo posto all’ultimo momento, viste le evidenti difficoltà fisiche del presidente uscente.

Dunque perché l’amministrazione Biden appare così tenace nel suo tentativo di fermare Netanyahu dalla sua volontà di porre fine al dominio di Hamas a Gaza?  

Per capirlo è fondamentale andare indietro nel tempo a inizio 2009, quando Barack Obama assunse la presidenza degli Stati Uniti, perché da allora ben poco è cambiato, con l’eccezione dei quattro anni a guida Trump che non hanno però portato a grossi cambiamenti all’interno delle strutture federali, dove il sostegno ai Dem è profondamente radicato dopo otto anni consecutivi di amministrazione Obama. 

Molti degli uomini attualmente attivi all’interno dei dipartimenti di Washington avevano già ricoperto posizioni di primo piano durante il periodo Obama, come ad esempio Robert Malley, finito nella bufera per contatti con Hamas nel 2008 nonostante l’organizzazione fosse nella black-list di Washington ma poi incaricato da Obama di organizzare la campagna statunitense contro l’ISIS (campagna non particolarmente risoluta ed efficace). Nel 2021, Malley veniva invece nominato da Biden inviato speciale per l’Iran, affidandogli il compito di allentare le tensioni diplomatiche con Teheran. Nella primavera del 2023 il nulla osta alla sicurezza di Malley era però sospeso e veniva avviata un’indagine sulla possibile cattiva gestione di materiale riservato. Malley ha tra l’altro sostenuto a suo tempo che Hamas debba essere inclusa nei negoziati politici in quanto l’OLP non sarebbe più unico attore legittimo nella rappresentanza del popolo palestinese.

Questo è soltanto un esempio, ma la rete di funzionari con posizioni simili a quelle di Malley all’interno dell’amministrazione Dem è ben più ampia ed eredità di una nuova visione, quella di Obama, che punta all’apertura nei confronti di quell’Islam politico, oramai sinonimo di islamismo radicale.  Da Jake Sullivan, a Antony Blinken, da Puneet Taiwar a Rashad Hussain a Brett Mc Gurk, si tratta di funzionari che sotto la presidenza Obama hanno ricoperto ruoli chiave negli accordi sul nucleare iraniano, come Blinken e Taiwar, o hanno comunque ereditato dall’Amministrazione Obama la sua visione di appeasement con la galassia del radicalismo islamico.

Una linea che va ben oltre la cosiddetta “Grande Iniziativa per il Medio Oriente” della precedente amministrazione Bush, che puntava sì a una transizione democratica nel mondo musulmano, ma non certo alla deriva islamista che si è poi verificata dopo il 2011.

Obama a suo tempo disse che, se eletto, avrebbe rivolto un discorso al mondo musulmano durante i suoi primi 100 giorni di mandato e la strada fu proprio quella. Entrato in carica nel gennaio del 2009, a inizio aprile era già ad Ankara a presentare la Turchia guidata dal partito islamista AKP di Erdogan come modello democratico e di “Islam moderato” in Medio Oriente e nel mondo. Un endorsement aspramente criticato dall’establishment turco di allora, ancora fortemente laicista prima delle “purghe” erdoganiane per riorganizzare gli apparati statali in forma islamica. Evidentemente Obama, a differenza di molti in Turchia, non aveva intuito il pericolo rappresentato da Erdogan che avrebbe portato il Paese ai primi posti per quanto riguarda la persecuzione di giornalisti, politici, membri delle istituzioni e comuni cittadini critici nei confronti del suo operato.

Obama non intuì nemmeno il pericolo rappresentato dai Fratelli Musulmani egiziani quando, nel giugno del 2009 al Cairo fece un discorso intitolato “Un Nuovo Inizio”, davanti a una platea tra cui, su richiesta della stessa amministrazione Obama, erano presenti una decina di leader della Fratellanza. In quell’occasione Washington pose le basi per un “regime change” a catena che un paio di anni dopo avrebbe coinvolto, con esiti disastrosi, Egitto, Tunisia e Libia. 

In Egitto l’anno di governo a guida Fratelli Musulmani con Mohamed Morsi risultò in un disastro totale, con l’ex presidente accusato di alto tradimento, di avere aperto le porte del Paese alle Guardie Rivoluzionarie iraniane e di rapporti con Hamas e Hezbollah. 

Nell’estate del 2013 milioni di egiziani si riversarono per le strade chiedendo nuove elezioni e contestando l’amministrazione Obama e l’allora ambasciatrice Anne Patterson, accusati di sostenere il governo (ormai regime) islamista nonostante il tracollo e il rischio di una guerra civile. La Patterson fu costretta a lasciare in gran fretta il Cairo, per aver appoggiato fino all’ultimo Morsi e venne poi immortalata assieme all’ex guida dei Fratelli Musulmani, Mohamed Badie e più avanti, durante un evento universitario negli Stati Uniti, mentre faceva il gesto delle quattro dita di Rabaa, simbolo della protesta pro-Morsi.

Nel gennaio 2015, ben dopo la caduta di Morsy, il Dipartimento di Stato americano ospitava una delegazione di leader legati ai Fratelli Musulmani, tra cui Walid el-Sharaby, membro dell’Egyptian Revolutionary Council, Gamal Heshmat, Abdel Mawgoud al-Dardery (due alti membri della Fratellanza) e Maha Azzam, presidente dell’Egyptian Council for Revolution, nato a Istanbul nel 2014 con l’obiettivo di contrastare Abdelfattah al-Sisi.   

Vi fu poi il caso di Mohamed Elbiary, ex funzionario dello United States Homeland Security Department, poi costretto alle dimissioni in seguito ad alcuni suoi tweet in favore del Califfato, dei Fratelli Musulmani e contro i copti egiziani. Sotto l’Amministrazione Obama, Elibiary aveva anche fatto parte del DHS Countering Violent Extremism Working Group e del DHS Faith-Based Security and Communications Advisory. 

C’è poi ben altro, come illustrato lo scorso novembre da Elliot Kaufman sul Wall Street Journal e rilanciato da Milano Finanza, perché, nel 2008, durante l’operazione “Piombo Fuso”, Israele ebbe la possibilità di distruggere Hamas, ma venne fermata dall’amministrazione Obama che non voleva nemmeno sentire parlare di rovesciare Hamas. Israele dovette fermarsi dichiarando un cessate il fuoco unilaterale e ciò pose le basi per un successivo conflitto nel 2014. 

Come se non bastasse, l’amministrazione Obama autorizzò l’invio al regime iraniano di 1,7 miliardi di dollari in contanti e sbloccò circa 100 miliardi di dollari di beni congelati, rafforzando così l’industria iraniana. Com’era prevedibile, Teheran ha utilizzato il denaro anche per rafforzare Hamas, gli Houthi, Hezbollah e le milizie sciite in Iraq e Siria. 

L’eccidio del 7 ottobre è conseguenza di tutto ciò, dei finanziamenti all’Iran, dello sdoganamento dell’islamismo, del cercare in tutti i modi di mantenere Hamas al potere. Non c’è dunque da sorprendersi se ancora una volta l’amministrazione Democratica cerchi di fermare Israele, anche a costo di tentare di rovesciare un governo democraticamente eletto che sta difendendo la propria popolazione dal terrorismo islamista, termine che a Obama non è mai piaciuto. 

  

  

 

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