Israele e Medio Oriente

Le smisurate ambizioni di Erdogan

Da qualche anno la Turchia di Erdogan è impegnata in una politica fortemente neo ottomana che procede a larghi passi nella totale latitanza dell’Europa e che, negli ultimi mesi si è fatta molto più aggressiva.

Esaminiamo le tappe della sua progressione.

Negli ultimi quindici anni la Turchia ha intrapreso una politica di “soft power” in molte aree: dal Medio Oriente all’Africa, dai Balcani all’Asia centrale. Si tratta di investimenti da miliardi di dollari per la costruzione di moschee, scuole coraniche e di investimenti in infrastrutture dai risvolti politici evidenti. La Turchia vuole giocare un ruolo sempre più centrale nel mondo islamico sunnita e scalzare l’Arabia Saudita come Stato di riferimento principale. In questo senso il finanziamento della Fratellanza musulmana in tutti i paesi in cui opera (Europa e Italia incluse) è un passaggio essenziale. All’azione politica diretta si associano anche elementi simbolici di forte significato come la residenza califfale di Ankara con oltre mille stanze (per un totale di 300.000 metri quadrati) dal costo di circa 600 milioni di dollari.

Di recente Erdogan è passato alla “fase due” del progetto, che consiste nella costruzione di basi militari all’estero, nell’invio di contingenti e aiuti militari fino ad invasioni vere e proprie come nel caso del Rojava. Il tutto nell’indifferenza internazionale soprattutto di quella europea e americana.

Il caso di Cipro è solo il più noto. Dal 1974 la presenza turca non ha mai destato grandi controversie internazionali anche se si è trattato di una invasione vera e propria con relativa operazione di colonizzazione, in aperta violazione del diritto internazionale . Con Erdogan le cose hanno subito un’accelerazione impressionante: ormai sono 40.000 i militari turchi in pianta stabile sull’isola e centinaia di migliaia i coloni. Non è servito un granché a Cipro entrare nella UE nel 2004. L’opera di colonizzazione non solo non è diminuita ma è addirittura aumentata con i soldi della UE: esiste, infatti, da qualche anno un programma di finanziamento della Commissione europea per i turchi che vivono a Cipro. Si chiama “The European aid for Turkish in North Cyprus”, e serve per la realizzazione di infrastrutture come fogne, sistema idrico, strade, ponti, interi villaggi, programmi culturali, turismo ecc. Nel caso di una reale occupazione come quella turca di Cipro, la UE non solo non la condanna ma la finanzia mentre a proposito di quella inventata della Giudea e Samaria, etichetta e discrimina le attività economiche in base a inesistenti leggi internazionali.

Da alcuni anni l’attenzione turca per il mar Rosso si è rifatta prioritaria. E per la prima volta dalla caduta dell’Impero ottomano la Turchia stà ricostruendo delle basi militari permanenti in questo mare strategico: ha iniziato a ricostruire l’antico porto ottomano sull’isola sudanese di Suakin, per farne una base navale militare, ottenuta dal governo sudanese come ricompensa per gli investimenti turchi nel povero paese africano (si tratta di investimenti da 10 miliardi di dollari in infrastrutture).

In Somalia, la Turchia ha costruito un’imponente base vicino a Mogadiscio con la scusa della lotta alla pirateria. Di fatto questa base è diventata permanente. Mentre le sue imprese edili stanno facendo concorrenza ai cinesi per la ricostruzione delle infrastrutture statali.

L’antagonismo che contrappone Erdogan ai principali paesi arabo sunniti ha molteplici fronti, sia sul piano politico-religioso sia militare. Ormai la contrapposizione tra i turchi e l’Arabia Saudita, l’Egitto e gli Emirati Arabi, ha diversi fronti: la Libia, la Siria, l’Iraq, il corno d’Africa, il golfo persico e le fazioni palestinesi.

La Turchia è presente nel Nord dell’Iraq, nella base di Bashiqa a circa 60 chilometri da Mosul, dalla sconfitta dell’Isis ma da allora non si è più ritirata. La ragione è il controllo del confine per prevenire “infiltrazioni terroristiche” curde. Di fatto occupa un area del territorio iracheno.

In Siria, ha iniziato un’invasione su larga scala per creare una zona cuscinetto per allontanare i curdi del Rojava dal confine turco e sostituirli con una popolazione araba e turcomanna.

Nel Golfo Persico, ha preso le difese del Qatar nella disputa con Arabia Saudita e le altre monarchie del golfo. Ha inviato un contingente militare a protezione dell’Emirato consistente in oltre 5.000 soldati e carri armati.

Il suo supporto per Hamas e le altre organizzazioni terroristiche palestinesi è sempre più evidente e in piena competizione con l’Iran degli ayatollah. Così come, sempre maggiori, sono gli investimenti e l’ingerenza che ha a Gerusalemme tramite varie organizzazioni religiose a cui destina un ingente flusso di soldi.

Un altro capitolo fondamentale di questo espansionismo politico militare è la Libia. Qui da diversi anni, Erdogan, sta fornendo aiuti militari al governo di Tripoli di al-Sarraj in contrapposizione agli altri paesi arabi sunniti che appoggiano il generale Haftar in una sanguinosissima guerra civile per il controllo delle risorse energetiche del paese. E’ degli ultimi giorni la notizia che esemplifica bene la megalomania di Erdogan e la sua visione del mondo. E’ infatti intenzione del raiss di intervenire militarmente in Libia per appoggiare al-Sarraj (e questo lo porterà in confronto diretto con la Russia che appoggia Haftar) contro i suoi nemici interni con l’intento di “porre stabilità” al paese ma con il fine di stringere una alleanza strategica con la Libia per il controllo delle risorse del sud est del Mediterraneo. In base ad una interpretazione del diritto internazionale tutta sua, Erdogan ha concordato con i libici di suddividersi tutta la parte orientale del Mediterraneo come sua zona economica esclusiva, di fatto escludendo così Cipro, l’Egitto, la Grecia e Israele. Minacciandoli, in ripetuti discorsi, di astenersi dall’operare lo sfruttamento delle riserve di gas presenti e di non procedere oltre con il progetto di realizzazione della pipeline per portare il gas verso l’Europa, con una non molto velata minaccia militare. Minacce che sono state rivolte anche alle multinazionali energetiche.

Non si tratta solo di parole, a dimostrato è il caso della nave dell’ENI sequestrata nel febbraio del 2018 vicino a Cipro e rilasciata dopo numerosi giorni e dopo la promessa, estorta, che l’ENI non sarebbe tornata nelle acque di Cipro per partecipare alle trivellazioni per il gas scoperto nell’area denominata Calypso I.

E’ inevitabile che un simile atteggiamento porti a nuove tensioni in tutta l’area. A questo proposito è da sottolineare che è ormai approntata la nuovissima portaerei Anadolu, della classe Juan Carlos ultimata nel 2018 dal costo di oltre 1 miliardo di dollari, che sarà un’ulteriore arma che potrebbe rompere gli equilibri già delicati nell’area.

Purtroppo l’assenza di una politica americana ed europea di contenimento di questo espansionismo, porterà ad inasprire la situazione. Per ora la Russia, tutta intenta a vendere armamenti costosi e sofisticati come le batterie S-400, non sembra in rotta di collisione con i turchi anche se in Libia e in Sira hanno interessi del tutto divergenti e un casus belli – come quello dell’aereo russo abbattuto dai turchi sui cieli di Alessandretta nel 2015 – potrebbe scoppiare e portare ai ferri corti i due improvvisati alleati.

La vera domanda che rimane aperta è fino a quando l’Europa avrà intenzione di finanziare la Turchia di Erdogan e il suo espansionismo economico e militare prima che sia troppo tardi e la situazione sfugga di mano. L’unica carta in mano alla diplomazia è quella economica essendo la Turchia militarmente più forte di quasi tutti i paesi europei della NATO ma, essendo, al contempo un gigante d’argilla economico. Basti pensare al braccio di ferro dello scorso anno tra Erdogan e Trump in merito al pastore protestante Andrew Brunson, accusato dai turchi di essere stato coinvolto nel tentato golpe del 2016 e incarcerato (in verità utilizzato da Erdogan come pedina di scambio per arrivare al nemico Fethullah Gulen che vive in esilio negli USA), e rilasciato dopo ritorsioni economiche USA che portarono al crollo della lira turca nel giro di qualche settimana mettendo in ginocchio l’intero sistema bancario turco.

 

 

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