Israele e Stati Uniti

L’ipoteca americana sulla guerra a Gaza

Le due conferenze stampa che si sono tenute ieri in Israele dopo la quinta visita in Medio Oriente dall’inizio della guerra da parte del Segretario di Stato americano Antony Blinken, evidenziano specularmente due registri divergenti.

Nel suo intervento, Benjamin Netanyahu, ha chiarito in modo perentorio che la proposta di accordo fatta da Hamas è del tutto irricevibile per Israele, e non avrebbe potuto essere diverso, trattandosi di una sommatoria di richieste esorbitanti culminanti con la cessazione dell’operazione militare a Gaza e la vittoria politica del gruppo terrorista.

Netanyahu ha ribadito che Israele proseguirà la sua operazione militare nella Striscia fino a quando Hamas non sarà sconfitto, e che ogni accordo che non prevede questo esito sarebbe per Israele un disastro. Solo dopo la sconfitta di Hamas sarà possibile riprendere la strada dell’avvicinamento all’Arabia Saudita interrotto il 7 ottobre.

La Casa Bianca non ottiene dunque al momento alcuna apertura a una disponibilità negoziale da parte di Israele, non con le proposte attuali avanzate da Hamas. Il cauto ottimismo che un accordo potesse essere raggiunto si è dissipato rapidamente. Resta la convinzione di Israele che la liberazione degli ostaggi ancora detenuti nella Striscia, possa avvenire solo con l’aumento della pressione militare, non con la sua sospensione.

Antony Blinken ha risposto più tardi, e nella sua conferenza ha ribadito che, pur avendo Israele tutto il diritto di perseguire il proprio obiettivo militare, conseguenza del 7 ottobre scorso, il numero dei civili morti continua a essere troppo alto e che Israele deve fare il possibile per diminuirlo, esortazione che è cominciata fin dal principio della guerra e che risponde alle forti critiche interne al partito democratico e a una parte dell’elettorato sull’appoggio che gli Stati Uniti stanno dando a Israele. Fino qui tutto come da copione, ma c’è un passaggio del discorso su cui occorre soffermarsi ed è quando Blinken dice:

“Gli israeliani sono stati disumanizzati nel modo più orribile il 7 ottobre. Da allora gli ostaggi sono stati disumanizzati ogni giorno. Ma questa non può essere una licenza per disumanizzare gli altri…La stragrande maggioranza della popolazione di Gaza non ha nulla a che fare con gli attacchi del 7 ottobre. Le famiglie di Gaza la cui sopravvivenza dipende dalla fornitura di aiuti da parte di Israele sono come le nostre famiglie. Sono madri e padri, figli e figlie, che vogliono guadagnarsi da vivere dignitosamente, mandare i propri figli a scuola, avere una vita normale. Ecco chi sono. Questo è quello che vogliono. E non possiamo, non dobbiamo perderlo di vista. Non possiamo, non dobbiamo perdere di vista la nostra comune umanità”.

Al di là della retorica e di una dose massiccia di demagogia, in queste parole si evidenzia come, dopo quattro mesi di guerra e la perdita di vite di migliaia di civili che vanno sottratti dalla cifra all’ingrosso data da Hamas, la quale comprende anche i jihadisti morti negli scontri, il punto fondamentale per gli Stati Uniti non è più, sempre che lo sia mai stato realmente, la sconfitta di Hamas a Gaza, ma che Israele non si comporti come Hamas.

Si tratta di una equivalenza insostenibile e profondamente disonesta. Washington sa benissimo che non esiste alcuna possibilità reale per Israele, date le condizioni di combattimento nella Striscia per evitare, pur con tutte le cautele, un numero elevato di morti civili. Sa benissimo che Israele sta combattendo una guerra urbana estremamente complicata, e resa ancora più difficile dalle continue pressioni che subisce per fornire aiuti umanitari che sostanzialmente finiscono nelle mani di Hamas, e appunto per cercare di limitare al massimo il numero delle vittime collaterali. Tuttavia non può evitare di confondere le acque indicando che nella sua risposta Israele sta eccedendo, dando così linfa a tutti coloro, la maggioranza degli attori internazionali, che stanno mettendo Israele sotto accusa e vorrebbero imporgli un cessate il fuoco, primo fra tutti Hamas stesso.

Si tratta del secondo inequivocabile segnale di un cambio di registro, dopo il dispositivo punitivo nei confronti di quattro coloni della Cisgiordania accusati di “violenza intollerabile”, dispositivo che Netanyahu non ha avuto remora a qualificare davanti a Blinken come un atto grave che mette sotto accusa ingiustamente tutta una categoria di persone le quali, in questo momento critico stanno dando con l’impegno a Gaza il loro contributo alla guerra, sottolineando che nulla di simile è stato disposto contro le ben più gravi violenze dei palestinesi contro i residenti ebrei della regione.

La distanza tra Washington e Gerusalemme è destinata ad allargarsi. Le esigenze di politica interna americane sulla necessità che la guerra non duri ancora a lungo sono in ovvio contrasto con le dichiarazioni di Netanyahu e l’obiettivo che Israele si è dato fin dal principio, la sconfitta di Hamas. Obiettivo che, nonostante il parere  del tutto strumentale di sedicenti esperti, è perfettamente raggiungibile, ma necessita di tempo e impegno.

Hamas non ha le risorse per potere contrastare a lungo l’offensiva israeliana, ed è il motivo per cui, fin dall’inizio della guerra, ha fatto affidamento sulla via politica, le pressioni internazionali per obbligare Israele a quel cessate il fuoco che gli servirebbe per non capitolare. L’utilizzo del Sudafrica, paese amico e ferocemente anti-israeliano, per accusare Israele di genocidio davanti alla Corte Penale Internazionale, rientra in questa strategia.

Gli Stati Uniti non chiederanno a Israele il cessate il fuoco, sarebbe troppo esorbitante il prezzo politico da pagare a casa, ma cercheranno di fare il possibile nei giorni che verranno per metterlo nelle condizioni di accettare un accordo per il rilascio degli ostaggi, che, con il pretesto che sia questo il vero obiettivo da raggiungere, gli impedirebbe di vincere la guerra.

 

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