Editoriali

Negoziare senza cedimenti

Donald Trump giurerà come quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti venerdì prossimo. Da quel momento in poi lui e la sua squadra saranno operativi. Chi pensava che in prossimità dello Studio Ovale il miliardario newyorkese si sarebbe acquietato si è dovuto ricredere. L’intervista congiunta concessa ieri al Times di Londra e al Bild non ha dato segnali di ravvedimento, ed è improbabile che, una volta insediatosi alla Casa Bianca, Trump cambi pelle diventando uno statista compassato. Non succederà. Cosa succederà è presto per dirlo, ma una cosa è improbabile, che tutto procederà come prima senza grandi scossoni.

L’Amministrazione Trump promette sulla carta un profondo se non radicale riassestamento. E’ questo il motivo per cui, al posto di Hillary Clinton, la quale avrebbe sostanzialmente tenuto in sesto i pilastri della dottrina Obama, gli americani hanno preferito lui. Lo hanno votato per un cambiamento profondo. Al di là della specificità dei bacini elettorali, degli interessi di categorie singole, blue collars, red necks, evangelici, ecc, quello che la vecchia regina del regno che non fu, Hillary Clinton definì sprezzantemente “il basket of deplorables”, il voto a Trump è, nella aspettativa dei suoi lettori, un nuovo inizio.

Relativamente al Medioriente e nello specifico Israele, Trump, dopo un iniziale agnosticismo si è avviato su un binario di plateale appoggio, culminato il 21 marzo del 2016 con il suo discorso all’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee), durante il quale calatosi completamente nel ruolo di difensore di Israele, dichiarò stentoreamente la sua intenzione di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

Questa “promessa”, dall’ingente valore simbolico, se mantenuta, segnerà uno di quei riassestamenti radicali che la sua presidenza sembra volere realizzare. Ma non potrà avvenire se non dentro un ben preciso contesto, ovvero quello di un chiaro e netto riconoscimento delle ragioni dello Stato ebraico rispetto a quelle dei palestinesi. Il che può solo significare una cosa, mandare in soffitta definitivamente l’illusoria ed esiziale pretesa di negoziare alla pari, di promuovere, come hanno fatto finora gli Stati Uniti, da Oslo in poi, l’inganno della terra in cambio di pace. Ci potrebbe essere pace in cambio di terra solo se, a negoziare con Israele, ci fosse un partner affidabile, purgato dall’estremismo e dal fanatismo, resosi pragmaticamente docile a quelle ragioni di convivenza che ha respinto sistematicamente dal 1937 a oggi, anno in cui la Gran Bretagna, attraverso la Commissione Peel, propose agli arabi circa il 70% del territorio lasciando agli ebrei poco più del 17%. Ma questo partner non esiste. Esiste un biscazziere dal fiato corto, Abu Mazen, il quale sulla falsariga del suo predecessore, Yasser Arafat, passa da registri apparentemente concilianti a infiammati discorsi da mullah, come quello del 16 settembre 2015 n cui affermava la mancanza di diritto da parte degli ebrei “dai piedi sporchi” di calpestare il suolo del Monte del Tempio, esaltando al contempo la “purezza del sangue” dei martiri, ed esiste Hamas, il quale ha come obbiettivo primario, scritto nella propria carta programmatica, l’eliminazione di Israele.

Secondo la logica pragmatica, l’empirismo disincantato dell’uomo d’affari, per Trump, “Tutto è rinegoziabile”. Questa appare la cifra della presidenza che sta avviandosi. Per quanto riguarda il conflitto arabo-israeliano lo potrà essere solo mettendo i palestinesi nella condizione di non potere più barare. Ciò significa non concedergli alcuna sponda. Israele, soprattutto Israele, deve fare la sua parte. Di sponde, ai terroristi, ne sono state concesse fin troppe.

“My deal is the last deal” (“La mia offerta è l’ultima).

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