Israele e Medio Oriente

Perché per vincere la guerra non basta conquistare Gaza

Nonostante siano ancora in corso le operazioni militari a Gaza e, presumibilmente, dureranno ancora diverse settimane, da più parti si è iniziato a parlare del dopo guerra. Il quadro che emerge è tutt’altro che rassicurante per lo Stato di Israele.  

Per prima cosa occorre chiarire il concetto di vittoria.

Una vittoria sul campo di battaglia non sempre porta a una vittoria politica nel dopo guerra che è l’unico scopo della vittoria militare. Israele sarà in grado di portare a termine questo obiettivo, che è quello più importante nel lungo periodo? Sul fatto che militarmente Israele sia più forte di Hamas non ci sono dubbi, come sul fatto che politicamente Israele sia meno preparato e “protetto”.

Proviamo a capire cosa si intende con “preparazione” e “protezione”. È stato chiaro fin da subito che i terroristi di Hamas godevano (e godono) di un appoggio politico mondiale superiore a quello di cui gode Israele. Basta osservare il fatto che nessun paese musulmano ha condannato l’eccidio del 7 ottobre, né gli Stati musulmani con cui Israele ha relazioni diplomatiche (Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Marocco, Bahrein e Sudan) né i paesi con i quali non le ha. Al posto di una condanna si sono dichiarati tutti preoccupati per la risposta militare israeliana, per i civili palestinesi, per la crisi umanitaria a Gaza ecc.

A queste preoccupazioni si sono aggiunte quelle dell’ONU insieme a tutte le sue agenzie a cui hanno fatto da megafono le dichiarazioni oltraggiose del Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres. Gli alleati occidentali di Israele dopo un brevissimo cordoglio iniziale per le vittime di massacri, stupri e rapimenti si sono affrettati a riposizionarsi in modo “equidistante” tra la banda di assassini e stupratori e lo Stato di Israele, vittima della carneficina, richiamando fin da subito Israele al rispetto delle regole del diritto internazionale alle quali, unico Stato al mondo, dovrebbe attenersi con scrupolo assoluto.

Tra gli alleati bisogna fare un importante distinguo: gli USA e l’Europa (ma anche Canada, Australia e Nuova Zelanda). Questi ultimi si sono distinti per aver condannato l’eccidio e poi per essersi schierati subito contro Israele in campo diplomatico: sia all’Assemblea Generale, che ha approvato una risoluzione nei fatti contraria a Israele con una maggioranza superiore a quella di condanna della Russia per l’invasione dell’Ucraina, sia al Consiglio di Sicurezza dove né Francia né Gran Bretagna hanno messo il veto alla proposta di risoluzione che nemmeno menzionava Hamas e l’eccidio compiuto.

Fatto ancora più indicativo e sconcertante è quello accaduto il 9 ottobre al Consiglio per i diritti umani. Qui, solo due giorni dopo l’eccidio di ebrei, su proposta del Pakistan, è stato chiesto un minuto di silenzio per le vittime palestinesi a seguito del quale tutti i 47 delegati del Consiglio (Germania compresa). Le vittime palestinesi, per il delegato del Pakistan sarebbero tutte quelle causate da “75 anni di occupazione” sionista. Oltre a ciò, tutti i paesi occidentali si sono affrettati a fornire aiuti umanitari, soldi, navi ospedale per i civili di Gaza ma nessuno si è preoccupato dei civili israeliani vittime dell’eccidio, dei bombardamenti indiscriminati (oltre 8.000 razzi nelle città israeliane), dei traumi dei sopravvissuti e delle centinaia di migliaia di sfollati. Di auto militare nemmeno a parlarne. Sotto questo aspetto, gli Stati Uniti  hanno prestato e prestano un considerevole aiuto. Sono l’unico paese al mondo che sta supportando concretamente Israele nella sua guerra ai terroristi (Hamas, Hezbollah e Houti) con armi e soprattutto munizioni. Tuttavia, dal punto di vista politico, gli Stati Uniti, hanno mostrato fin da subito un atteggiamento ambivalente: forte sostegno a Israele all’ONU, corredato dal veto alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e votando – uno dei pochissimi paesi a farlo – con Israele all’Assemblea Generale, facendo però seguire queste azioni concrete da dichiarazioni alternativamente da parte di Biden, Blinken e del Segretario alla difesa, Llyod Austin tutte improntate  a costanti esortazioni nei confronti di Israele a evitare al massimo la morte dei civili, ben sapendo come opera Hamas, camuffandosi tra la popolazione d Gaza e utilizzando  metodicamente, abitazioni civili, ospedali, scuole e moschee come basi di lancio per i razzi, come depositi di armi, centri di comando e carceri per i sequestrati. Oltre a ciò, si sono affrettati (come tutti i paesi europei) ad affermare “che Hamas non rappresenta il popolo palestinese”, facendo chiaramente intendere che “il popolo palestinese” non ha alcuna responsabilità morale nell’eccidio del 7 ottobre, come non ne hanno gli arabi per i 100 anni in cui combattono una guerra di logoramento contro il popolo ebraico, senza avere mai accettato nessuna proposta di soluzione pacifica. Diretta conseguenza di questo modo di vedere le cose è la stantia riproposizione del paradigma de “due Stati per due popoli” come unica soluzione al conflitto nonostante il fatto che dopo l’eccidio del 7 ottobre, tutti i sondaggi svolti danno a Hamas un’approvazione tra i palestinesi tra il 70% (a Gaza) e l’80% (in Giudea e Samaria), e dopo che l’Autorità Palestinese continua con orgoglio a stipendiare gli assassini di ebrei come se fosse una onorata attività lavorativa.

A queste posizioni politiche assunte dagli alleati bisogna aggiungere il ruolo delle ONG che si auto proclamano “difensori dei diritti umani”. Nessuna di esse ha espresso la minima condanna per l’eccidio, ma si sono subito affrettate ad accusare Israele di “crimini di guerra”, “violazione del diritto umanitario”, “genocidio”, “di avere provocato la più grande emergenza umanitaria del mondo” e via dicendo. Tutte queste accuse infondate hanno il preciso scopo di demonizzare e criminalizzare lo Stato ebraico agli occhi dell’opinione pubblica. Queste accuse hanno trovato subito eco nelle università soprattutto americane e in molti ambienti – teoricamente – sensibili ai diritti civili e umani, che hanno reagito con manifestazioni d’odio e di boicottaggio verso studenti, attivisti e docenti ebrei.

Ma perché tutti i rappresentati politici dei paesi “amici” o di quelli nemici, dell’ONU, delle ONG così preoccupati delle conseguenze della guerra per i civili (solo quelli palestinesi), non chiedono a gran voce a Hamas di deporre le armi e arrendersi? Non sarebbe il modo più veloce e meno cruento per porre termine alla guerra? Perché nessuno fa pressioni sugli Stati arabi per isolare Hamas e costringerlo ad arrendersi? Perché nessuno permette ai civili di Gaza di allontanarsi dal teatro di guerra? Forse, perché tutto sommato Hamas è considerato come un interlocutore presentabile al pari di Israele (concetto di equidistanza) e i civili devono fungere da scudi umani per colpevolizzare Israele.

Dopo avere esaminato questo scenario con il quale si deve confrontare l’esecutivo di Israele per poter condurre la propria guerra contro Hamas, va considerata la preparazione di Israele analizzando cosa dovrà attuare per il dopo guerra per potere proclamare la vittoria.

Per quanto concerne il grado di preparazione dell’establishment politico e militare, è palese il suo grado di impreparazione culturale di fronte a una minaccia come quella rappresentata da Hamas. Con impreparazione culturale, si intende il non avere capito, e il non capire (probabilmente neanche ora), la natura più profonda di Hamas: un’organizzazione criminale che affonda le radici nell’islam salafita e nel nazismo europeo, totalmente avversa  all’esistenza di uno Stato del popolo ebraico. L’errore è stato quello di credere di poterci convivere solo perché ha assunto, negli anni, una forma statuale che le ha permesso di radicarsi in un territorio e tra la popolazione di Gaza tramite un indottrinamento che dura da quando ha preso il controllo di Gaza nel 2007, grazie ai soldi di USA, UE e Qatar e alle scuole dell’ONU (UNRWA). Il solo pensare che Hamas si possa riciclare nel dopo guerra tra le fila dell’Autorità Palestinese (che è diversa solo a parole) e tornare a governare Gaza oltre che in Giudea e Samaria fa tremare. Cosa dovrebbe fare il governo di Israele (sperando in un esecutivo completamente nuovo così come nuovi dovrebbero essere i vertici dell’esercito)? 

La prima cosa da fare sarebbe chiudere tutte le strutture dell’UNRWA ed espellere tutti i funzionari ONU collegati ad essa e quelli di tutte le organizzazioni pseudo umanitarie che sono un potente strumento di odio antiebraico. Solo così si potrà cercare di eliminare una pluridecennale educazione all’odio impartita nelle scuole palestinesi. Si dovrebbe quindi subordinare l’ingresso di lavoratori palestinesi in Israele e il pagamento all’AP delle tasse che raccoglie in sua vece, al cambiamento educativo palestinese e all’immediata cessazione del pagamento di stipendi agli assassini di ebrei e alla loro glorificazione. Si dovrebbe quindi cessare la fornitura di acqua e di energia elettrica a Gaza. Infine, Israele dovrebbe rendersi il più possibile autonomo nella capacità militare senza dovere più dipendere dagli USA e così subire costanti e inesorabili ricatti.

Tutto questo non potrà essere realizzato in poco tempo ma se non si incomincia politicamente a pensarlo ed ad attuarlo un po’ alla volta, Israele non vincerà realmente questa guerra come quelle che verranno e la sua stessa esistenza sarà messa seriamente a rischio.       

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