Israele e Medio Oriente

Sderot la martire

Nei giorni scorsi, leggendo le notizie che arrivavano dalle città israeliane al confine con Gaza, mi sono tornati alla mente i due giorni nei quali visitai Sderot, e alcune riflessioni che scrissi allora. Il reportage di allora resta quanto mai attuale.  Per capire, per raccontare che essere israeliani significa anche essere costretti a convivere con la morte. Il bioritmo vitale di un Paese speciale.

Ha scritto Lev Tolstoj: “Per vivere con onore bisogna struggersi, turbarsi, battersi, sbagliare, ricominciare da capo e buttar via tutto, e di nuovo ricominciare a lottare e perdere eternamente. La calma è una vigliaccheria dell’anima”. Mai definizione fu miglior abito cucito su misura sulla pelle dello stato di Israele. Un Paese che credi di conocere e ti meraviglia, ti sorprende, ti far rimanere a bocca aperta sempre, ogni volta che ci ritorni. Non serve essere “filo”,”anti”, “pro” o “contro” e tantomeno servono le lenti per filtrare il raggio degli ideali, degli schieramenti o della passione per esplorare il mondo. Il mondo spesso è come il sole: a volte ti abbaglia.

Sderot, Ashkelon, i kibbutz di Yad Mordechai e Mefalsim: i  bersagli del terrorismo palestinese. Sderot è una piccola cittadina di 27mila anime. Le case erano fatte di cartongesso, ma una rivoluzione edilizia ha imposto la necessità di edificare palazzi rinforzati e rifugi antimissile in cemento armato. Qui l’incubo resta il suono di una sirena. L’allarme è un urlo stridulo che può arrivare a ogni ora del giorno e della notte. Il confine tra la vita e la morte è segnato in 15 secondi: tanto serve alla gente per cercare di imboccare il primo rifugio antimissile. Pochissimo turismo. C’è un centro commerciale con una piazza e tutt’intorno palazzi di quattro piani al massimo. La gente si sforza di sorridere, ma questa è la città israeliana con il più alto numero di persone seguite da psicologi per disturbi legati alla paura.

Questa è la città in cui i bambini – le prime vittime della paura e della guerra, quanto lo sono quelli palestinesi – vengono portati in un centro donato con i fondi dell’American Jewish Fund, un capolavoro di tristezza e di gioia: duecento metri quadri in un capannone nella zona industriale con pareti affrescate da colori gioiosi che si alternano alle figure di Topolino, Minnie, Cip e Ciop; qui quando l’allarme si fa alto entrano i bambini di Sderot, e nel cuore di questa palestra piena di canestri, bamboline e cartoni animati c’è la “stanzetta del compleanno”. Maestre, mamme e psicologi al primo allarme sgranano un sorriso e dicono ai piccoli che è arrivato il momento di far festa: si festeggia il compleanno di Mickey Mouse, e dunque si va nel rifugio antimissile. Trenta metri quadrati arredati gioiosamente con sedioline colorate, un televisore che proietterà film e bocchettoni per l’ossigeno con autonomia di 24 ore. Tutto costruite per garantire la sicurezza dei bimbi, finchè là fuori passi la bufera.

Non è esattamente ciò che fa Hamas per i bambini palestinesi e per la sua gente. A Gaza di guerra si muore tre volte in più che in Israele, è vero. Ma nella Striscia i bambini vengono utilizzati come scudi umani, le batterie di Kassam vengono montate su asili e scuole, per non parlare degli ospedali. E questo nessuno lo dice. A Gaza la vita di un bambino vale zero. Come quella dei quasi diecimila palestinesi che campano facendo i pendolari – ogni giorno su e giù, avanti e indietro lungo il valico di Erez – per lavorare la terra in Israele. Ogni lavoratore palestinese deve mantenere, in media, una famiglia di dieci persone e in Israele, lavorando, guadagna dai 500 ai 700 dollari al mese; ma quando poi da Gaza comincia il lancio di razzi il valico viene chiuso, e quel palestinese-lavoratore è costretto a vivere con meno di un dollaro al giorno.

Hamas sta affamando la sua gente. Introita miliardi di dollari ogni mese grazie ai finanziamenti del Qatar e di altre nazioni del Golfo Arabo e non destina un penny al welfare. Hamas utilizza quei soldi per armarsi. E peccato che in quel fiume di denaro finiscano anche i generosi finanziamenti elargiti dall’Europa. Cioè da noi. Il valico di Erez resta però sempre  aperto – su decisione di Israele – per i passaggi umanitari, per consentire l’accesso ai palestinesi che hanno bisogno delle cure mediche, dei ricoveri e delle operazioni urgenti in Israele. Altro paradosso: Israele continua a fornire al suo nemico – la Palestina di Hamas – l’energia elettrica. Quello che i sacri fuochi dell’informazione “corretta” continuano a nascondere è una verità scomoda da raccontare. Israele continua a fornire elettricità a Gaza, anche se sa benissimo che essa verrà usata anche per far funzionare le fabbriche di missili che sono poi sparati contro la sua popolazione civile.

 

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