Israele e Medio Oriente

Gli zombie della causa palestinese e i cadaveri da seppellire

La “ causa palestinese ”, intesa come causa dei palestinesi, il popolo “resistente” nei confronti dell’”entità sionista”, creato ad hoc dall’OLP nel 1964 e poi consolidatosi successivamente alla Guerra dei Sei Giorni del 1967, è feticcio vintage per cultori di memorabilia, ma non è più tanto spendibile sul mercato politico aggiornato del Medioriente.

Da dopo la chiusura della Seconda Intifada nel 2005 (un anno prima moriva il suo ideologo, il lord of terror, Yasser Arafat), la lucha, armada composta di feticci lessicali come “colonialismo”, “imperialismo”, “apartheid”, “razzismo”, ecc. si è assai smorzata sul terreno, e salvo i due fallimentari conflitti intentati da Hamas contro Israele, nel 2008 e nel 2014, e l’ondata di accoltellamenti del 2015 e del 2016, si è ridotta sempre più a testimonialità di un tempo guerrigliero estinto.

Per restare in Italia, al di là dell’indignazione, suscita mestizia e pena riascoltare Bettino Craxi paragonare Arafat a Mazzini in un discorso tenuto alla Camera durante la crisi di Sigonella. Mestizia e pena rinnovate leggendo una intervista recente di Massimo D’Alema, il quale rimpiange i bei tempi andati del filopalestinismo governativo, quando in Italia si apparecchiava il Lodo Moro e si chiudeva benevolmente un occhio sul traffico di armi dei terroristi (pardon, “resistenti”) dell’OLP, sul nostro territorio mentre a Roma il piccolo Stefano Taché veniva assassinato nell’attentato del 1982 alla Sinagoga centrale. Ecco, sì, D’Alema e uno struggente “The way we were”, pugni chiusi e kefiah e l’esecrazione pavloviana nei confronti di Israele. “Compagni, siamo con gli oppressi!”, i palestinesi, beninteso.

Quanta acqua è passata sotto i ponti, e malgrado l’odio per Israele sia rimasto e sia ancora molto attivo, risultato di cinquanta anni indefessi di propaganda costruita con pazienza tra Mosca e le capitali arabe, si tratta di una ampia nube tossica residuale che oggi in Medioriente relativamente ai grandi potentati musulmani, soprattutto sunniti (l’Iran sciita rappresenta una eccezione), raccoglie adesioni stanche, per lo più rituali. Nelle stanze del potere saudite si tesse tanta realpolitik in questi giorni, e il conflitto arabo-israeliano poi declinatosi in palestinese-israeliano, occupa uno spazio assai ridotto. Si guarda a preoccupazioni assai maggiori, si tessono alleanze strumentali come sono tutte le alleanze.

Da una parte dunque i cultori del vecchio romanzo criminale con Israele protagonista nel ruolo del carnefice, tutto un mondo di idées reçues, di vecchi totem di una religione secolareche cerca disperatamente di tenersi in vita, e ha soprattutto in Occidente i suoi maggiori estimatori, dall’altra la realtà rinnovata mediorientale in cui sempre più i vecchi nemici sunniti, con in testa l’Arabia Saudita, custode arcigna dei più santi luoghi islamici, guardano a Israele se non come al loro principale protettore regionale, sicuramente come a una garanzia per il futuro. Ed è in questo scenario, in cui è l’Iran, con le sue mire espansionistiche e la determinazione di continuare ad esportare il progetto islamico millenarista confezionato da Kohimeni nel ’79, che si iscrive la decisione americana di spostare a Gerusalemme la sua ambasciata riconoscendo finalmente l’ovvio, che la città dorata è da settanta anni la capitale effettiva dello Stato ebraico.

La storia si muove verso altri lidi con giovanile impeto, come quello manifestato dal futuro re saudita, quel Mohamed bin Salman, il quale sembrerebbe avere l’intenzione (il condizionale è d’uopo) di scrollare di dosso al suo paese il wahabismo, ammodernandone l’immagine. Nessuno prima di lui da parte saudita aveva parlato lo stesso linguaggio di Israele, come quando ha indicato in Ali Khamenei, suprema guida sciita e custode occhiuto della fede armata, l’incarnazione odierna di Adolf Hitler.

Sì, lo spartito è rinnovato. La musica suonata dai D’Alema, e altrove dal BDS, da tovarisch Corbyn in Inghilterra, in Svezia dal Ministro degli Esteri Margot Wallstrom e in giro per l’Europa da tanti altri è roba ormai stantia, museale, come è stantio il vecchio padrino di Ramallah, Abu Mazen, ricevuto a Riad recentemente, il quale dal giovane principe saudita che presto avrà in mano completamente le redini dello stato, si è sentito dire di finirla, di cogliere al volo l’occasione della nuova proposta americana ancora non resa pubblica, ma che non conterrà, no, uno stato palestinese in Cisgiordania con, come ciliegina sulla torta, Gerusalemme Est capitale. Back to reality, è tempo di aggiornarsi, il Medioriente pulsa di una nuova energia, risplende di un riverbero diverso, come quello emanato dal globo terrestre luminoso su cui poserò la mano Trump, Al Sisi e il vecchio Re Salman, quando il presidente americano visitò Riad a giugno.

Gerusalemme capitale di Israele è in fondo una ovvietà, la certificazione di una realtà consolidata, ma al contempo sancisce un nuovo corso, una road map in cui non sono contemplate più rivendicazioni ideologiche che appartengono a un passato fissato in un rictus cadaverico. I cadaveri si seppelliscono con cura augurando loro il riposo eterno.

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