Editoriali

Il conflitto arabo-israeliano e l’approccio Trump

A breve, entro l’estate, così si suppone, vedrà la luce la road map che l’Amministrazione Trump ha disegnato per “risolvere” il conflitto arabo-israeliano declinatosi, dal 1967 in poi, in conflitto israelo-palestinese con il sorgere improvviso di un popolo autoctono costruito in funzione anti-israeliana.

Donald Trump ha ormai abituato l’opinione pubblica mondiale a mosse politiche brusche e risolute costringendo tutti a stargli dietro con reazioni a maggioranza sommamente negative. La decisione, il dicembre scorso, di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele, lo spostamento assai veloce dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme avvenuta il 14 di maggio, (malgrado gli “esperti” dichiarassero che non sarebbe mai avvenuta durante il suo mandato), il taglio di fondi all’UNRWA e all’Autorità Palestinese, l’avere messo con le spalle al muro Abu Mazen, tutto ciò ha ridefinito in modo dirompente lo scenario.

Si è trattato, come in altre circostanze, di rompere gli schemi, di dare un calcio ad assetti tattici consolidati. La tecnica trumpiana è da filibustiere, è pacchiana ed eversiva, obbliga gli interlocutori a rinculare, a mostrare di che pasta sono fatti.

Di che pasta è fatto Abu Mazen, Trump se me è accorto presto. Dopo un iniziale incontro alla Casa Bianca giudicato assai cordiale, da alcuni fin troppo, è poi arrivata la doccia fredda. Durante il secondo incontro con il presidente dell’Autorità Palestinese, avvenuto a Ramallah durante il viaggio che il presidente americano fece in Israele l’anno scorso, l’atteggiamento, da benevolo era già diventato ruvido. Da allora le cose sono precipitate. Trump ha preferito altri interlocutori e non ne fa mistero. Si tratta di big players come l’Arabia Saudita, la costellazione degli emirati, e ovviamente l’Egitto e la Giordania. Tutto ciò non ha fatto che evidenziare l’irrilevanza dell’Autorità Palestinese nel determinare un eventuale processo di pace. Cosa arcinota da almeno vent’anni e massimamente da un decennio, da quando Abu Mazen, difronte al pacchetto assai vantaggioso che gli propose Ehud Olmert nel 2008 e che conteneva il 94% dei territori della Cisgiordania, Gerusalemme Est come capitale, più terreitori aggiuntivi da definire, continuò a giocare a rimpiattino trovando una magnifica sponda in Barack Obama.

Trump ha dunque messo completamente a nudo l’anziano capataz cisgiordano, ne ha mostrato l’inaffidabilità e la debolezza, mostrandolo prima di tutto ai palestinesi stessi. E’ a loro, infatti, che si rivolge, non alla dirigenza palestinese totalmente incapace di decidere alcunché, in lotta da quattordici anni con Hamas, afflitta da corruzione cronica e unicamente interessata a perpetuare lo status quo.

Qualsiasi sia la forma della road map americana, una cosa è certa, il tavolo su cui si sta giocando la partita di un conflitto oggettivamente e definitivamente vinto da Israele sul piano militare e tenuto in vita ideologicamente e finanziariamente dall’Iran e dall’Europa, è quello tra USA e mondo arabo sunnita. Quest’ultimo da tempo assai disaffezionato nei confronti di una causa che considera essenzialmente marginale per l’equilibrio geopolitico del Medioriente.

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