Israele e Medio Oriente

Il saldo asse tra Washington e Gerusalemme e lo scenario mediorientale

Mike Pompeo torna in Israele non più da direttore della CIA ma come Segretario di Stato e nella conferenza stampa insieme a Benjamin Netanyahu ribadisce la nuova dottrina americana riguardo all’Iran. Pompeo parla dopo che il premier israeliano ha ribadito quello che dice da anni e che disse nel 2015 al Congresso americano, quando tentò, senza successo, di ostacolare l’accordo sul nucleare iraniano: l’Iran è il problema più grande in Medioriente, non solo per Israele.

“La maggiore minaccia per il mondo e per i nostri due paesi è il matrimonio tra l’Islam militante e gli ordigni nucleari“. Pompeo ascolta e quando è il suo turno dice a Netanyahu le parole originate dal rinnovato realismo che la Casa Bianca ha fatto proprio dopo la stagione dell’appeasement obamiano nei confronti di Teheran.

Il presidente Trump è stato molto chiaro. Questo accordo è radicalmente difettoso. La linea guida data all’amministrazione dal presidente è di cercare di aggiustarlo e se non riusciremo ad aggiustarlo uscirà dall’accordo”.

Mentre a Londra Macron, Theresa May e Angela Merkel, sostengono l’accordo ma poi si accodano a Washington affermando che bisogna correggerlo in quelle che sono le cosiddette “sunset clauses” ovvero le clausole che riguardano il suo termine insieme alle restrizioni che dovrebbero essere imposte sull’uso dei missili balistici (cose che dicono solo ora in virtù della determinazione di Trump), Washington sa bene che molto difficilmente Teheran tornerà al tavolo accettando le richieste americane. E lo sa anche Israele.




Per il regime iraniano sarebbe infatti una umiliazione, significherebbe accettare un ruolo subalterno dopo avere fatto la parte del leone e avere ottenuto solo vantaggi a fronte di promesse. Significherebbe andare a Canossa e ammettere ciò che Donald Trump ha ribadito più volte in campagna elettorale e da presidente eletto, che quello sul nucleare iraniano è “Il peggiore accordo di sempre”.

La verità è che l’accordo sarebbe già stato affossato l’anno scorso a ottobre, e fu solo in virtù della pressione congiunta dell’ex Segretario di Stato Tillerson, dell’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale McMaster e anche di James Mattis, Segretario alla Difesa, che Trump decise di non chiedere al Congresso di applicare di nuovo le sanzioni all’Iran ma preferì la linea più morbida decidendo solo di non certificarlo.

Ora, Tillerson e McMaster non fanno più parte della squadra. Al loro posto ci sono Mike Pompeo e John R. Bolton, entrambi nettamente ostili all’accordo e lucidamente consapevoli che contro “l’agente del caos”, come Trump ha qualificato l’Iran, non può più prevalere una linea di credito.

Il 12 di maggio, la deadline che la Casa Bianca ha fissato per le eventuali correzioni che sono state chieste all’accordo, è molto vicina. Non sarà certo l’Europa a frenare una decisione che è, di fatto, già scritta e evidenzia come la priorità americana in Medioriente sia indebolire ulteriormente un regime internamente fragile come quello iraniano.




Mai come in questo momento Israele ha potuto contare su una convergenza così netta tra le proprie istanze di sicurezza e le priorità americane regionali. Convergenza che vede parte in causa gli stati arabi sunniti, con, a fare da mosca cocchiera, l’Arabia Saudita lanciata verso il futuro da quello che sarà il nuovo sovrano, Mohammed Bin Salman.

Pompeo non si è limitato a parlare solo di Iran, ha specificato che la priorità americana in Iran è la sconfitta dell’ISIS ma ha anche definito “barbaro” il regime di Assad sostenuto da Iran e Russia. Nessun accenno su un prolungamento della presenza militare americana in Siria, ma è ben noto che sia Israele sia l’Arabia Saudita sono contrari a che il contingente americano lasci la Siria per consegnarla interamene nelle mani di Iran, Russia e Turchia.

E’ uno scenario fortemente rinnovato quello che ha presentato il nuovo Segretario di Stato e che annuncia sommovimenti futuri rilevanti.

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