Storia di Israele e dell’Ebraismo

“Imma”, da Tripoli a Israele: “Stavamo bene, ma quando andarono via gli italiani…”

“Buona sera”. Ci saluta così un simpatico vecchietto. Ma non siamo in Italia, siamo in Israele a Bat Yam, la Figlia del mare, in Negba street, la via dei tripolini che già sudditi di Sua Maestà il Re d’Italia, fuggiti dalla Libia dove erano da oltre duemilacinquecento anni, contribuirono alla costruzione della città che prima era un semplice villaggio. Ed è qui che abita Imma (mamma in ebraico).

“Quando ero una ragazzina ero davvero molto bella. Per questo che mio padre mi mise su una barca di pescatori e mi mandò a Cipro. Perché gli arabi, quelli che venivano da lontano, quando erano andati via gli italiani rapivano le belle ragazze ebree e le portavano sulle montagne, nel deserto. Mio padre pagò molti soldi al pescatore per farmi fuggire. Mio padre era ricco, era gioielliere, aveva una fabbrica di gioielli e cose di argento. Quando partii non avevo niente con me. Solo quello che avevo addosso: due camicette, due gonne, due paia di calzini, messi uno sopra l’altro. Niente più. A Tripoli rimase la mia famiglia, mio padre mia madre ed i miei fratelli e due sorelline più piccole di me.”

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Imma racconta la sua storia con una tranquilla semplicità, pacatamente. Una storia comune per gli ebrei in quel periodo ma per noi, ora, straordinaria.

“Com’era bella Tripoli. Ricordo la piazza, la fontana e la prigione. Noi abitavamo vicino la prigione. Come stavamo bene. Io andavo alla scuola con i bambini italiani, ed è per questo che parlo italiano. E poi la sera anche a quella degli ebrei. Eravamo una famiglia ricca. Avevamo due case e mio padre aveva con sé lavoratori arabi, che trattava come figli. Ma quando andarono via gli italiani diventarono cattivi e potevano anche ucciderlo.

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Quando arrivai a Cipro mi misero con altri bambini. Poi su una nave ed arrivammo qui in Israele”.

A questo punto Imma si confonde un po’ con le date. Silvia, la figlia premurosa con cui vive, dice che da qualche tempo comincia a fare un po’ di confusione con le cose e ci spiega che la madre arrivò in ottobre, quando lo Stato di Israele era già stato proclamato da qualche mese, affidata ad un’organizzazione sionista che si occupava dei bambini soli. Ad ottobre ancora infuriava la guerra con gli arabi. Durerà anche l’anno successivo. I coloni ebrei difendevano palmo a palmo le terre dove si erano insediati. Appena sbarcati, agli uomini veniva dato un fucile e li mandavano a combattere mentre le famiglie venivano ospitate in accampamenti di tende. Imma fu più fortunata, aveva lì una zia.

“Quando arrivai mi portarono subito da mia zia, a Jaffa. Lì c’erano tanti arabi ma erano amici di mia zia, erano brave persone, con loro eravamo come una famiglia. Però eravamo poveri. Mia zia non poteva dare da mangiare anche a me. Per questo io andavo a fare i servizi in casa delle signore. Io che a casa mia non avevo mai fatto nulla; ero come una principessa. A casa mia madre aveva delle persone che l’aiutavano, qui invece dovevo andare a casa delle signore per mangiare e non sono mai più andata a scuola. Avevo quindici anni.”

Nel frattempo, dopo un terribile periodo di atrocità e violenze cominciate dai pogrom del novembre del ’45, la comunità ebraica tripolina riesce ad ottenere dal governatorato inglese, il 2 febbraio 1949, di poter lasciare il paese. Una parte si rifugia in Italia, dove ora è parte consistente della comunità ebraica romana, ma la maggior parte (31.343 profughi) a cominciare dall’aprile successivo viene condotta via mare, con 42 trasporti, ad Haifa. Nel frattempo, la guerra con gli arabi era terminata con la vittoria ed il consolidamento dello stato d’Israele.

Anche la famiglia di Imma arriva finalmente in Israele e la ragazza può ricongiungersi con i suoi.

All’inizio vivono in accampamenti di tende, poi per anni ammassati in baracche, lavorando sodo per la costruzione della nuova patria. Una buona parte partecipa alla fondazione, in una zona prima praticamente desertica, della città di Bat Yam, ora una città che fa parte urbanisticamente di Tel Aviv-Jaffa. Qui vivono ancora in molti ed hanno una loro sinagoga. Come per le altre comunità rifugiatesi in Israele anche i tripolini mantengono una loro specifica appartenenza ed identità ed hanno un loro giornale “Germogli”, che con un gioco di parole significa anche “Cuore di Libia”.

La sinagoga principale di Tripoli, oggi

La sinagoga principale di Tripoli, oggi

Prima di congedarmi chiedo un po’ provocatoriamente ad Imma, Klima il suo vero nome, se per lei gli arabi sono buoni o cattivi, e lei con uno scatto quasi di ribellione ribatte pronta “Ma che sono queste cose?! Cristiani, arabi o ebrei, Dio è lo stesso per tutti!”

Poi si raddolcisce e sospira. Gli occhi, oramai quasi ciechi ma ancora belli, le si illuminano di un sorriso di nostalgia e scorgendo quella che considera ancora e sempre la sua città mi dice sussurrando “Com’era bella Tripoli, devo ritornarci”.

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