Editoriali

La concretezza dei fatti: Donald Trump e il conflitto arabo-israeliano

In attesa di vedere quale sarà la road map predisposta dagli Stati Uniti relativamente al conflitto arabo-israeliano e chi saranno maggiormente gli scontenti, (anche se prevedibilmente, come sempre, saranno gli arabi-palestinesi), finora, da parte di Donald Trump e dei suoi consiglieri ha trionfato il principio di realtà.

Dalla decisione del 6 di dicembre scorso di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele, seguita il 14 maggio di quest’anno dal trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv, a quella di interrompere i cospicui finanziamenti USA all’UNRWA e quelli dirottati dall’Autorità Palestinese al finanziamento dei terroristi incarcerati e delle loro famiglie, non c’è stata una mossa che non abbia, di fatto, ribaltato un vecchio e sclerotizzato assetto tenuto in piedi nei decenni dalle precedenti amministrazioni sia repubblicane che democratiche.

La filosofia dell’Amministrazione Trump riguardo al più persistente e mediatizzato conflitto del dopoguerra è molto semplice; la pace si può raggiungere solo nel momento in cui si chiamano le cose con il proprio nome e si sgombra il campo da mistificazioni, raggiri, truffe. Il negoziatore Trump non si fa broker di un tavolo negoziale dove uno dei due negoziatori si siede con in mano delle carte truccate, cosa che è avvenuta fino ad ora. Se si aprirà un tavolo tra israeliani e palestinesi, ciò potrà avvenire solo alla luce di fatti concretamente determinati.

A questo proposito è da evidenziare come le posizioni assunte finora dalla Casa Bianca siano sovrapponibili a quelle dell’autorevole Think Tank americano Middle East Forum, specializzato nelle questioni mediorientali e presieduto da Daniel Pipes.

Nel gennaio del 2017 il Middle East Forum ha presentato un progetto chiamato Israel Victory Project poi delineato in un articolo di Commentary che l’Informale ha tradotto in esclusiva per l’Italia. Il sunto del lungo articolo a firma di Daniel Pipes è che è giunta l’ora per i palestinesi di rinunciare alle loro fantasie irredentiste e di arrendersi all’evidenza che il conflitto è ormai terminato e Israele ha vinto. Affinché ciò sia conclamato Israele deve mostrare una maggiore assertività e determinazione “obbligando” i palestinesi alla resa.

Allo stato attuale, l’Amministrazione Trump ha messo in pratica alcuni dei punti principali delineati da Daniel Pipes e incardinati nell’Israel Victory Project, appunto il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, la fine dei benefici nei confronti dell’Autorità Palestinese, la riconfigurazione dei rapporti tra Stati Uniti e UNRWA, il rifiuto di riconoscere l’esistenza di uno Stato palestinese.

C’è da augurarsi che il piano di pace americano non ancora reso pubblico malgrado indiscrezioni e anticipazioni sia, come i fatti elencati, il più possibile ancorato alla realtà, all’esigenza base di Israele di avere garantita la propria sicurezza. Ciò comporta per i palestinesi un’unica scelta per la convivenza, la rinuncia definitiva alla violenza.

Sono settanta anni che la violenza araba nei confronti degli ebrei in Medioriente non ha portato a nulla, se non al riconoscimento obtorto collo della supremazia miltare israeliana. Le fantasie di distruggere Israele o di costringere gli ebrei ad abbandonare la Palestina, sono appunto tali. Il prezzo maggiore lo hanno pagato gli arabi, sia in termini di morti, sia sotto il profilo socio-culturale. E pensare che già nel 1947 avrebbero potuto avere, se solo lo avessero voluto, il loro stato.

 

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