Editoriali

Vittime del politicamente corretto: da Trump all’israeliana Caroline Glick

Il bigottismo e l’intolleranza dei tolleranti è la faccia impresentabile ma vera dei liberal. Senza cosmesi, come quella struccata e disfatta di Hillary regina detronizzata, dopo la sonora sconfitta. Li abbiamo visti nelle piazze ululare “Not My President” rivolti a Donald Trump. Li abbiamo visti prima, demonizzarlo, trasformarlo nel mostro, nel taycoon abominevole, trascinando nella melma insieme a lui il suo elettorato di “deplorables”, come ebbe ad apostrofarli la Gran Signora degli Scandali. Certo, Donald Trump, l’impresentabile Trump, prestava il fianco facilmente con le sue gagliofferie verbali e i suoi comizi che sembravano gare di wrestling con lui sull’arena nei panni di Hulk Hogan, ma tutto ciò non è nulla al cospetto della loro consolidata abitudine alla violenza. Violenza fatta di ostracismo, di disprezzo, di menzogna, tutto condito naturalmente dalla convinzione di essere moralmente e culturalmente superiori. Questo vecchio spartito della sinistra, che nasce nel Bene e nella Virtù mentre tutti gli altri sono segnati col marchio di Caino, è cosa nota e risaputa. Non riescono a cambiarlo, non ci riusciranno mai, e otto anni di Obamacare (I care for you, for you all folks!) non hanno fatto che incrementarlo. Bastava guardarli Obama e Trump nel loro primo incontro alla Casa Bianca, Trump sembrava un ragazzino pentito delle sue marachelle mentre Obama era terreo in volto nel trovarsi di fronte al suo opposto radicale. The Devil in The White House è il titolo del prossimo blockbuster finanziato da George Soros.

Il popolo del “Not My President” viene dalla radicalizzazione di sinistra, quella che ha introiettato con il biberon che il mondo si divide in due schiere, noi e loro. Loro chi? I cattivi americani, bianchi, patriottici, eterosessuali, religiosi, e oh sì, anche in questo campo ci sono i bigotti, gli estremisti, i violenti, ma non hanno il monopolio culturale. Media, università, think tanks. Certo ce ne sono numerosi anche a destra, ma non fanno corpo nazionale come quelli monopolizzati dalla narrativa democratica. Insomma, siamo sempre lì, ad Antonio Gramsci e alla presa delle cittadelle dell’informazione e del potere. La sinistra è stata più abile, non ci sono dubbi.

I campus americani sono da anni laboratori di progressismo massimalista, di “progressive thinking” in cui tutto ciò che è tradizionale, borghese e fatto in casa è messo alla berlina in quanto “razzista”. Perché sono loro, i liberal, i giacobini difensori della Virtù, che definiscono cosa è razzista e cosa no, i figli e i nipoti della cultura del piagnisteo, per citare Robert Hughes, del meaculpismo a tutto spiano a cui inchiodare l’Occidente fino al suo ultimo respiro. E allora Trump è il reo, come lo era e lo è prima di lui Israele, Stato “imperialista”, “razzista” e “colonialista” in cui si partica “l’apartheid” e contro il quale si organizzano gli apartheid weeks in compagnia di solidali di Hamas e Hezbollah e dei Fratelli Musulmani.

I campus sono roccaforti in cui Caroline Glick, ebrea-israeliana dalla lingua affilata, che scrive per il Jerusalem Post, non può parlare. La Glick è solo l’ultima delle proscritte. E’ successo a San Marcos, dove la Texas State University ha deciso di cancellare il suo invito. La motivazione? Ci sarebbero potuti essere studenti a disagio per le sue posizioni pro Israele. La cosa bella è che la decisione è stata presa dal direttivo degli studenti ebrei del campus stesso per “timore che [la Glick] possa allontanare gruppi che non hanno una posizione pro Israele”.  La religione del politically correct è come una pistola con la quale ci si spara nei piedi. E infatti, dopo che l’università ha cancellato l’invito, il gruppo Students For Justice in Palestine ha festeggiato. Parliamo di un gruppo affiliato con i Fratelli Musulmani e Hamas, noti combattenti per la giustizia in nome di Allah. Saranno contenti i pavidi che hanno fatto in modo che la Glick non intervenisse.

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L’autrice israeliana, la quale, proprio ieri ha scritto sul Jerusalem Post un articolo in cui sottolinea come il prossimo probabile leader del Comitato Nazionale dei Democratici sarà Keith Ellison, musulmano nero di Minneapolis (match perfetto per i progressisti peccato non risulti essere anche gay), il quale ha militato dal 1989 al 1998 nella Nation Of Islam, la setta estremista afroamericana musulmana antisemita la cui delirante teologia suprematista (sì, come esiste il suprematismo bianco esiste anche quello di colore) sostiene che la popolazione originaria del pianeta fosse nera e i bianchi caucasici siano una razza demoniaca creata in laboratorio. Tuttavia, di Ellison si parla e si è parlato poco. In questi giorni il bersaglio preferito è stato Steve Bannon, scelto da Donald Trump come capo stratega del suo gabinetto, altro mostro da sbattere in prima pagina.

Siamo, ovviamente, solo all’inizio. I prossimi mesi vedranno un accentuarsi delle radicalizzazioni. Il rifiuto liberal nei confronti di Trump è il sintomo eclatante e intrinsecamente totalitario del disprezzo che i perdenti hanno per la democrazia quando non si conforma ai loro desideri.

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