Editoriali

Le forme dell’antisemitismo

Amnesty International-Regno Unito ha pubblicato un nuovo rapporto con cui accusa Israele di sottoporre i palestinesi al «crimine contro l’umanità dell’apartheid». L’etichetta di «stato di apartheid» viene applicata, ingiustamente, a Israele da tempo immemore; ma questa volta, la diffamazione si è fatta più estrema, Amnesty International ha infatti accusato Israele di aver praticato la discriminazione razziale sin dalla sua fondazione nel 1948.  

È chiaro che un simile rapporto ha come unico obiettivo quello di minare le fondamenta dello Stato di Israele come stato-nazione del popolo ebraico. Si tratta di puro antisemitismo che, in questo caso, si mescola all’avversione verso le nazioni caratteristica della celebre setta filantropica. L’attacco di Amnesty International non è diretto solo alla presunta «apartheid», ma a quella che il rapporto definisce, con malcelato disprezzo, «l’identità ebraica» di Israele.  

Si ha l’impressione, leggendo la relazione, che il vero obiettivo polemico sia l’identità nazionale israeliana e il tema della discriminazione razziale un grimaldello per scardinarla. Dato il suo orientamento transnazionale, Amnesty non riesce ad accettare che Israele sia, primariamente, una patria per il popolo ebraico. Quello che l’antropologo Melville Herskovits chiamava il «diritto di ogni individuo alla propria cultura», non è preso in considerazione dall’organizzazione fondata da Benenson, che vede solo e ovunque «esseri umani» e condanna come «razzismo» ogni tentativo di preservare una qualche forma di specificità nazionale o religiosa.  

Nel suo rapporto, Amnesty International-UK, caratterizza gli ebrei israeliani come un gruppo razziale autoidentificato, colpevole di preferire sé stesso e la propria sicurezza all’universalismo post-nazionale. Senza rendersene conto, gli attivisti per i diritti umani riprendono un’antica maledizione, quella dell’Ebreo carnale chiuso nel suo egoismo tribale e religioso. Risolutamente transnazionale, Amnesty non può che stigmatizzare la decisione israeliana di fondare lo Stato sull’identità ebraica e di porre delle differenze tra cittadini e non-cittadini.  

Il perenne conflitto arabo-israeliano rianima delle rappresentazioni mentali e degli archetipi che si credevano sopiti. L’eresia marcionita, che opponeva il Dio crudele e geloso dell’Antico Testamento a quello amorevole del Nuovo, si ripresenta tra i critici del sionismo e d’Israele. Secondo i neo marcioniti, le politiche israeliane sono riconducibili allo stesso ebraismo, sono consustanziali all’identità ebraica. Da Breyten Breytenbach fino al recente rapporto di Amnesty International, passando per José Saramago e Luis Sepúlveda, tutti condannano le remote e presuntivamente «violente» e «razziste» tradizioni ebraiche.  

Insomma, si dovrebbe all’Antico Testamento l’invenzione del razzismo, del genocidio e l’idea di «popolo eletto». La «candela nel filo spinato», inconsapevolmente fedele a questo marcionismo di ritorno, vorrebbe degiudaizzare Israele per far cessare lo «stato di apartheid». Nel momento in cui, in Occidente, la Shoah viene trasformata nel crimine supremo contro l’umanità e suonano le sirene della fusione universale dei popoli, riemerge la condanna dell’Ebreo tribale razzialmente connotato.  

Il rapporto di Amnesty International-Regno Unito si richiama a un passato oscuro e si configura come un tentativo di demonizzare e delegittimare Israele attraverso argomenti canonici dell’antisemitismo storico. 

Torna Su