Israele e Medio Oriente

Spoliazione e fuga degli ebrei iracheni

Con la creazione dello Stato di Israele nel 1948, la vita degli abitanti ebrei dell’Iraq divenne impossibile fino alla decisione di scappare da un territorio che li aveva visti crescere e vivere fin dai tempi dell’antica Babilonia.

Nel corso dei secoli la vita ebraica in Mesopotamia, con la conquista araba del VII secolo d. C., si era mantenuta difficile anche se migliore rispetto ai correligionari che vivevano negli Stati cristiani. L’arrivo dell’Islam comportò per gli ebrei – come per tutte le altre popolazioni che non vollero convertirsi – una vita da sudditi discriminati. Divennero fin da subito dhimmi, come previsto nel Corano per le popolazioni che vivevano in territorio conquistato dall’Islam (Dar al-Islam).

La condizione di dhimmi, nel mondo islamico, si attuava con molteplici imposizioni più o meno rigide a seconda del grado di tolleranza mostrato dal regnante. Essa andava da semplici discriminazioni in materia di abbigliamento: agli ebrei era imposto un pezzo di stoffa, sull’abito o un cappello, giallo ben visibile per poter essere immediatamente riconoscibili. Alla non validità di testimonianza in tribunale che li vedeva contrapposti a sudditi musulmani. A restrizioni relative alle cavalcature e ai luoghi di culto, ai carichi fiscali ben superiori rispetto ai sudditi musulmani. Fino al pagamento della jizya, cioè di una “tassa per la protezione” riservata ai non musulmani che non intendevano convertirsi e che volevano continuare a risiedere nei luoghi che li ha visti vivere per generazioni. Così nel corso dei secoli questo status comportò un condizionamento talmente radicato che andò ad influenzare il comportamento, la mentalità, l’aspetto esteriore e le attività svolte da queste popolazioni.

La situazione della comunità ebraica irachena si trascinò così per oltre un millennio, vedendo la propria condizione migliorare o peggiorare in base alla maggiore e minore intolleranza dei governanti che si alternavano: dai califfi arabi a quelli turchi che mantennero, ininterrottamente (salvo la breve parentesi mongola nel XIII secolo), il potere in Mesopotamia fino alla sconfitta dell’Impero ottomano alla fine della Prima guerra mondiale. Nel 1920, per decisione della Società delle Nazioni, fu creato il Mandato britannico di Mesopotamia e la condizione delle popolazioni non musulmane migliorò sotto molteplici aspetti.

Così molti membri della locale comunità ebraica poterono accedere ad importanti incarichi statali in qualità di alti funzionari amministrativi, nelle ferrovie, nelle poste, e nella banca dello Stato. Anche in ambito privato raggiunsero posizioni di prestigio: non pochi divennero avvocati, notai, giornalisti, imprenditori e grandi commercianti. Ma già a metà degli anni ’30 una grande ondata di filo nazismo – con conseguente risorgere di anti giudaismo – attraversò tutto il mondo arabo. Nello specifico in Iraq (dal 1932 divenuto uno Stato indipendente) si tradusse in una sempre maggiore ostilità verso la comunità ebraica. Le cose andarono peggiorando con lo scoppio della Seconda guerra mondiale. L’avversione anti inglese divenne estremamente diffusa e fu alimentata dalla propaganda nazista. In questo clima ormai avvelenato, diverse figure religiose iniziarono ad aizzare gli animi contro gli abitanti ebrei. Uno dei maggiori responsabili di questo crescente odio antiebraico fu il Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini, che scappato dalla Palestina mandataria dopo aver iniziato una rivolta anti inglese nel 1936 e ricercato, trovò rifugio a Bagdad nel 1939. Qui iniziò una violenta propaganda anti inglese e anti ebraica che ebbe molto seguito tra la popolazione irachena. Ad aprile del 1941 fu tra gli organizzatori del golpe che portò un gruppo di ufficiali dell’esercito a prendere il potere. Il nuovo governo si schierò apertamente dalla parte dell’Asse.

Il 9 maggio, Amin al-Husseini, emise una fatwa per chiamare la jihad contro gli inglesi e gli ebrei in tutto il Medio Oriente. Il rapido intervento militare inglese depose il governo filo nazista in meno di un mese di combattimenti. Ma ormai, per gli ebrei iracheni, la situazione era segnata. Amin al-Husseini riuscì ancora una volta a scappare alla cattura inglese e fuggì in Iran, da lì raggiunse poi l’Italia e la Germania dove continuò il suo appoggio ai due regimi.

In Iraq l’1-2 giugno di verificò un violentissimo pogrom antiebraico – Farhud in arabo – che ricordava per molti aspetti la “notte dei cristalli” del 1938. Fu un orgia di sangue e devastazioni che colpirono diverse comunità ebraiche in tutto l’Iraq. I soldati inglesi non intervennero per due interi giorni. Alla fine si contarono quasi 200 morti e migliaia di feriti e mutilati. I danni materiali a proprietà furono incalcolabili. Questo violento atto criminale verso dei civili inermi fu solo l’ultimo atto, come si accennava in precedenza, di una crescente ostilità antiebraica che già si manifestava dalla metà degli anni ’30. E’ infatti da questo momento che funzionari statali ebrei furono allontanati da molti incarichi statali e dalle scuole pubbliche. Anche iscriversi agli studi superiori, per gli ebrei, risultava sempre più difficile. Ormai era sempre più evidente che per gli ebrei iracheni, la situazione stava peggiorando in modo drammatico. Un ulteriore campanello d’allarme, prima del Farhud del giugno 1941, fu il ritrovamento durante i disordini seguiti al colpo di stato del ‘41, da parte di un ufficiale ebreo dell’esercito iracheno, Shaul Sehayit, di un documento top secret dell’esercito che era l’ordine dell’alto comando di predisporre la lista di tutti gli ebrei e dei loro beni presenti nel Paese. Si stavano seguendo le orme di quanto era appena avvenuto in Germania. L’occupazione inglese che durò tutto il periodo della guerra ebbe l’effetto di sospendere momentaneamente le manifestazioni antiebraiche più violente, ma il fuoco covava sotto la cenere. Il nuovo pretesto per sfogare i sentimenti antiebraici fu la questione della spartizione del Mandato britannico di Palestina nel novembre 1947. Immediatamente dopo che fu diffusa la notizia dell’approvazione in sede ONU della spartizione, scoppiarono disordini e violenze antiebraiche. Questa volta con l’aggiunta di vere e proprie spoliazioni e confische dei beni e delle proprietà detenute dagli ebrei. Le scuse erano le più variegate: si andava da presunte violazioni fiscali, amministrative o semplicemente si “convincevano” i proprietari ebrei a cedere le loro attività o case a cifre irrisorie. Alla fine degli anni ’40 la comunità ebraica irachena contava ancora più di 130.000 persone. Nel giro di una paio danni si ridussero a meno di 10.000 per, poi, scomparire totalmente nel corso degli anni ’60.

Nel 1948 dopo la proclamazione dell’indipendenza di Israele e l’aggressione araba allo Stato neonato, la situazione degli ebrei iracheni si era fatta insostenibile. Il 19 luglio di quell’anno fu modificato il codice penale con la legge 51. Questa modifica comportò il reato di “sionismo” che diventava un crimine punibile con 7 anni di carcere. L’accusa, che poteva colpire un qualsiasi ebreo iracheno, poteva essere sostenuta da due “testimoni” musulmani. Per gli ebrei non c’era possibilità di ricorrere in appello. Nel giro di pochissimi mesi centinaia di ebrei furono, conseguentemente, arrestati torturati e privati completamente delle loro proprietà. In alcuni casi si arrivò alla pubblica impiccagione degli accusati, che erano generalmente i più facoltosi, e i loro beni sequestrati. Nel giro di pochi mesi oltre 1500 ebrei furono cacciati dai loro incarichi statali e furono costretti a vivere in miseria. Stessa sorte capitò ai dipendenti ebrei del porto di Bassora e ai dipendenti delle ferrovie. E’ da sottolineare che questi licenziamenti in massa causarono forti ripercussioni economiche in tutto il paese. Ma più l’economia peggiorava più si dava colpa a “complottisti ebrei” che agivano nell’interesse di Israele. Iniziò poi il boicottaggio delle attività commerciali, dei professionisti e dei negozianti. Il valore delle proprietà ebraiche crollò dell’80%. Agli ebrei iracheni non restava alternativa alla fuga dal paese.

Tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949 si formarono intere carovane di persone in fuga verso l’Iran, che era l’unico paese che si dimostrava disposto – dietro a cospicue “mance” – ad accettare gli ebrei in fuga per raggiungere altri paesi. La corruzione dai piccoli funzionari di frontiere raggiunse i più alti livelli dello Stato. Più gente scappava più la corruzione diventava onerosa. Fu un autentico business sulla pelle di gente disperata in fuga. Per tutto il 1949 furono circa 1000 ebrei al mese che riuscirono a scappare dal paese, tra mille difficoltà e lasciando tutto ciò che avevano, ma per le autorità ciò non era sufficiente.

Il 3 marzo 1950, fu approvato una modifica alla Legge 1. Questa modifica, il “Denaturalization act”, autorizzava lo Stato a revocare la cittadinanza a tutti gli ebrei che volevano lasciare il paese, ricalcando in tutto e per tutto ciò che era avvenuto in Germania negli anni trenta. Con la perdita di cittadinanza si aveva il contestuale “congelamento” di ogni proprietà. Da questo momento ogni cittadino ebreo che si registrava per emigrare perdeva automaticamente tutti i beni. Le autorità irachene pensarono che solo gli ebrei già ridotti in miseria avrebbero deciso di emigrare, invece praticamente l’intera comunità decise di chiedere il permesso all’espatrio (la validità era per un anno) per il timore di rimanere prigionieri in uno Stato che li stava pesantemente discriminando. Nel giro di poche settimane decine e decine di migliaia di rifugiati si ritrovarono in campi profughi allestiti alla bene e meglio in Iran. Pensare di immigrare via terra era impossibile visto il numero altissimo di profughi. A questo punto intervenne il Mossad per organizzare un ponte aereo per condurre questi disperati in Israele. Era una corsa contro il tempo prima che il governo iracheno cambiasse idea e non ne permettesse più l’uscita. Si decise così di ripetere, in grande, l’operazione che permise il salvataggio della comunità ebraica yemenita due anni prima. Fu contatta nuovamente la compagnia aerea Alaska Airlines – a nessun aereo israeliano era permesso il sorvolo e l’atterraggio nei paesi arabi e in Iran – e fu creata una finta compagnia aerea ad hoc per l’operazione di salvataggio: la Near East Air Transport. In un anno furono trasportate in Israele poco più di 40.000 persone. Gli aerei dovevano fare scalo a Nicosia (sull’isola di Cipro) per tenere nascosta la destinazione finale: Tel Aviv. Per poter velocizzare le operazioni e poter raccogliere i profughi direttamente in Iraq, fu stretta una collaborazione con un partner locale, la Iraq Tours, il cui proprietario era niente di meno che il primo ministro iracheno in persona: Tawfig as-Suwaydi, colui che aveva proposto il “Denaturalization act” e ora si apprestava ad arricchirsi sulle disgrazie da lui prodotte. L’operazione di aviotrasporto fu chiamata “operazione Ezra e Nenemiah”. Gli ebrei in fuga erano taglieggiati e umiliati sia durante il trasporto verso l’aeroporto sia all’interno dello scalo. Non c’era guardia o soldato che non cercasse di trarre profitto dai disperati in fuga. Le operazioni di imbarco erano molto spesso rallentate appositamente dalle guardie irachene che non rilasciavano i timbri necessari se non dietro lauti compensi. La situazione era giunta ad un punto drammatico: decine e decine di migliaia di persone, che nel frattempo erano stati privati della cittadinanza e dei loro beni, dormivano in aeroporto e nelle strade circostanti in attesa di un imbarco. La situazione era così critica che le autorità minacciarono di rinchiudere i senza tetto in campi di concentramento se non fossero partiti velocemente. C’era bisogno di un numero maggiore di aerei. Non mancarono i pretendenti a questo lucrativo trasporto di disperati. Il Mossad dovette pagare onerosi contratti di affitto a due compagnie aeree inglesi: la BOAC e la BEA. Mentre il contratto di manutenzione e “servizi” a terra fu dovuto essere affidato alla compagnia irachena Iraq Airways con tanto di tangente per ogni volo. I voli continuarono senza sosta fino al marzo 1951. Israele si trovò in una situazione di grave emergenza. Gli arrivi incessanti erano talmente numerosi che lo Stato non disponeva più ne di abitazioni ne di tende sufficienti ad accogliere tutti. Bisogna ricordare che dal 1948 anno della sua fondazione al 1951, con l’arrivo degli ebrei dai paesi arabi (Yemen, Egitto, Tunisia, Marocco e Iraq) la popolazione dello Stato era raddoppiata. Mai nella storia moderna di uno Stato era successo qualcosa di paragonabile.

Nel frattempo, nel marzo del 1951, il governo iracheno aveva approvato la Legge 5 con la quale si congelavano a “tempo indeterminato” tutti i beni degli ebrei in fuga. Questo escamotage permise all’Iraq di appropriarsi di tutti i loro beni senza operare una confisca vera e propria, così da non incorrere in infrazioni del diritto internazionale. In questo modo nessuno avrebbe potuto mai reclamare davanti ad un giudice in altri Stati. Quando fu approvata questa legge, per essere sicuri che nessun ebreo potesse prelevare un po di denaro, il governo ordinò la chiusura di tutte le banche per tre giorni. Oltre a ciò il governo iracheno dichiarò che dopo il 31 maggio del 1951, non sarebbero stati rilasciati più visti di emigrazione. Israele si trovò nella difficilissima situazione di assorbire tutti gli ebrei iracheni nel più breve tempo possibile per paura che migliaia di persone rimanessero prigioniere in uno Stato che non le riconosceva più come cittadini. Furono incrementati i voli – ormai si volava giorno e notte – fino a trasportare più di 15.000 persone al mese. Entro la fine del 1951 praticamente tutta la comunità ebraica irachena si era stabilita in Israele con i soli abiti che aveva indosso.

Torna Su