Islam e Islamismo

La fiction palestinese e il realismo della storia

Messo all’angolo dalla decisione dell’Amministrazione Trump di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele e conseguentemente di spostarvi l’ambasciata, la settimana scorsa Abu Mazen ha convocato d’urgenza il Comitato Centrale dell’OLP per esibirsi in uno dei suoi show di piena delegittimazione di Israele. Lo ha fatto, come già altre volte, attraverso un excursus fantastorico, già specialità del suo predecessore, Yasser Arafat.

La fantastoria è uno dei cardini della propaganda palestinese, la quale trova un terreno già abbondantemente arato dalla teologia musulmana classica per cui l’Islam è la religione primigenia dell’umanità, l’unica e vera e definitiva, e ebraismo e cristianesimo sono false religioni, le quali, seppure storicamente anteriori, in realtà avrebbero falsificato il messaggio originario di Allah.

Allo stesso modo, si inventano genealogie inesistenti tra cananei, filistei e palestinesi, per evidenziare come nella regione chiamata Palestina e precedentemente per secoli Giudea, gli arabi che la invasero nel VII secolo, in realtà fossero sempre stati lì. L’intento è chiaro e programmatico, scalzare la storia ebraica, incistata da millenni nella regione e ampiamente antecedente quella islamica, per sostituirvi quest’ultima. Operazione fatta dall’Unesco recentemente in virtù di risoluzioni che hanno islamizzato il Muro Occidentale, il Monte del Tempio e la Tomba dei Patriarchi. D’altronde, l’acronimo del movimento fondato dal jihadista laico Yasser Arafat nel 1964 è esplicito, non ci si può confondere. Si tratta di “liberare” la regione dalla presenza ebraica. Era lo stesso proposito degli eserciti arabi che attaccarono Israele nel ’48 e nel ’67, l’eradicazione dell’”entità sionista”.

Questo progetto di annichilimento, propedeutico alla sostituzione degli ebrei con i musulmani ed eventualmente con il mantenimento su un territorio considerato perennemente Dār al-Islām, di una piccola percentuale di ebrei ridotti in dhimmitudine, non è mai venuto meno. La netta sconfitta araba nelle due guerre principali intentate contro Israele per la sua distruzione, nonché l’insuccesso della Seconda Intifada, con il terribile prezzo di sangue fatto pagare alla popolazione israeliana, rappresentano la certificazione di un fallimento storico completo.

Abu Mazen, residuale leader abusivo di una stagione di lotta e guerra che si è conclusa di fatto con la morte del lord of terror Arafat, è oggi il simbolo di un tempo immobilizzato, di una storia museale che non riesce più a muovere gli animi del mondo arabo circostante.

La decisione dell’Amministrazione Trump di rendere effettiva una legge americana passata al Congresso nel 1995, ha definitivamente mostrato come la cosiddetta “causa palestinese” sia un feticcio assai invecchiato, una non priorità nell’attuale scenario mediorientale, dove la storia ha preso un altro corso, si muove verso altri lidi. Lo ha capito bene il futuro re saudita Mohamed bin Salman, a capo del paese che custodisce i luoghi più sacri dell’Islam. Per lui Gerusalemme non è affatto prioritaria. Convocato Abu Mazen a Riad gli  ha fatto capire che sarebbe meglio per lui sedersi a un tavolo con Israele e acconsentire al nuovo piano americano sul quale corrono molte voci ma che di fatto non si conosce ancora nei dettagli.

Non avendo alcun appoggio sostanziale in Medioriente, se non quello dell’Iran, che ha fatto della distruzione di Israele uno dei suoi due totem propagandistici, Abu Mazen dove va a cercarlo? In Europa, ovviamente. Perché se è vero, come è vero, che in Medioriente in senso generale il palestinismo non muove più le folle, l’Europa è rimasta ancorata a questo amore accesosi nel 1973 durante la crisi petrolifera e sotto ricatto arabo, e da allora in poi perennemente sostenuto in chiave antisionista e antiamericana (nonostante amministrazioni USA poco amichevoli con Israele), dalla sinistra.

E’ soprattutto l’Europa oggi che tiene in vita la fiction di uno Stato palestinese inesistente, una pura realtà virtuale anche se di fatto già parzialmente determinabile a Gaza come in Cisgiordania nelle aree A e B, post Oslo. Senza il sostegno ideologico europeo l’apparato di Abu Mazen riceverebbe un duro colpo. Ma l’Europa non demorde vedi alla voce UNRWA, il comparto creato per la perpetuazione perenne dei “rifugiati” palestinesi, a cui Trump recentemente ha sottratto una cospicua parte dei fondi. Soldi già in parte rimpiazzati da paesi dichiaratamente filoarabi come la Svezia, il Belgio con l’aggiunta dell’Olanda.

Il problema per Abu Mazen, anagraficamente prossimo al ritiro, è che questa Europa che in parte ha già riconosciuto un inesistente Stato palestinese, anche se dovesse riconoscerlo ulteriormente non potrà controbilanciare il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale di Israele. Il motivo è semplice. Gerusalemme è, empiricamente, la capitale di Israele dal 1948, lo Stato palestinese è una entità del tutto priva di una statualità effettiva. Anche se tutti gli stati della UE dovessero riconoscerne l’esistenza essa continuerebbe ad avere una consistenza fantasmatica, la stessa ormai della causa per cui si affanna Abu HiroOnoda Mazen, anche lui, prigioniero del passato, come il soldato giapponese che continuava a combattere la sua personale guerra in un isola delle Filippine, ventotto anni dopo la resa del Giappone.

La battaglia persa di Abu Mazen è la stessa battaglia persa dell’Europa, divisa su quasi tutto ma ben unita, salvo lodevoli eccezioni, sulla pregiudiziale pro-palestinese. Ma la storia del Medioriente non si fa più in Europa dalla crisi di Suez del 1956. E’ da allora che gli attori occidentali sono altri, in primis gli Stati Uniti come ha dimostrato inequivocabilmente l’attuale presidente.

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