Israele e Medio Oriente

La necessità di Al-Sisi

“In Medio Oriente nel corso degli ultimi dieci anni, due grandi correnti hanno tentato di dare una sorta di leadership politica alle lotte dei popoli della regione. In primo luogo, la crisi in Palestina rappresenta il lavoro incompiuto dai movimenti di liberazione nazionale degli anni 1950 e 1960. L’intifada rinnovata, e il ruolo chiave svolto da Fatah, il più grande blocco nazionalista dell’OLP, dimostrano la risonanza persistente di idee nazionaliste. In secondo luogo, il movimento islamista ha risposto alla crisi dell’imperialismo con una sorta di internazionalismo islamico, che contrappone gli attivisti islamici direttamente alle forze ‘crociate’ dell’imperialismo.

Di tutti i conflitti in Medio Oriente, nessuno simboleggia la lotta impari contro l’imperialismo meglio che l’intifada palestinese. L’immaginario della intifada – bambini contro carri armati, gli scontri nelle strade di Gaza e della Cisgiordania, i funerali e le manifestazioni di massa – è stato bruciato nei ricordi di una generazione in tutto il Medio Oriente. Per un gran numero di gente comune, l’impotenza dei regimi arabi di fronte l’aumento dei livelli di brutalità da parte delle forze israeliane di occupazione è solo uno specchio della propria umiliazione.

Capire come l’intifada si collega alla lotta più ampia in Medio Oriente è una parte vitale per cogliere il vero potenziale di resistenza all’imperialismo occidentale e la repressione in casa propria. La debolezza della borghesia palestinese, e la superiorità militare ed economica completamente schiacciante di Israele hanno fatto sì che il movimento di liberazione nazionale palestinese non sia ancora riuscito a creare uno stato a sé stante. In molti modi l’esperienza della lotta palestinese è una testimonianza della capacità di recupero dei movimenti di liberazione nazionale, in quanto è il coraggio e la creatività del popolo palestinese comune. Eppure il corso dell’intifada dell’ultimo anno dimostra anche l’impotenza finale della lotta nazionale.”

Chi pronunciò queste parole è Anna Alexander la referente accademica a Cambridge di Giulio Regeni, la sua tutor. Troviamo nell’eloquio militante e fervoroso della docente inglese le parole d’ordine di conio sovietico che dal 1967 hanno determinato il lessico terzomondista e anti-occidentalista dei propalestinesi accaniti in servizio permanente.

“Imperialismo”, “liberazione nazionale”, “occupazione” sono i feticci verbali preferiti, corredati in questo caso da “crociata”, termine questo mutuato dal lessico musulmano. La tesi è quella arcinota e propalata senza sosta dai megafoni rossi avvolti dalla bandiera con la mezzaluna. Israele è una potenza imperialista la quale opprime un popolo autoctono che resiste con la lotta.

Questa tesi è quella che unisce in una alleanza tenace, solida e fanatizzata, la sinistra occidentale (non solo l’estrema sinistra) e l’Islam. Sì, c’è anche l’estrema destra che in nome del suo storico anticapitalismo e antiamericanismo è necessariamente antisionista, ma questa è un’altra storia, residuale, e che non preoccupa più di tanto visto l’irrilevanza politica mondiale delle formazioni di estrema destra. Ma veniamo alla Alexander per poi giungere a Al Sisi e a Regeni. Perché una cosa fondamentale è necessario capirla. L’attacco concentrico contro Al Sisi e l’Egitto come luogo di una brutale dittatura è stato cucinato con cura dai sodali dei Fratelli Musulmani, di cui la Alexander, come altri a sinistra, è estimatrice. Bisogna raccontare un attimo questo mondo capovolto per capire cosa bolle in pentola e chi sta con chi, e qual è la posta in gioco, perché se non si capisce questo non si capisce niente.

Tutto comincia con l’appoggio dato dall’amministrazione Obama ai Fratelli Musulmani. La scommessa spericolata riguardo all’Egitto fatta da quella amministrazione, fu di puntare su una formazione estremista le cui origini sono radicate nell’integralismo islamico fin dagli anni Trenta. Alle spalle di questa scelta c’è lo sdoganamento dell’Islam come “religione della pace” fatto da Obama al Cairo nel 2009. Non che la qualifica sia di Obama. Va detto. La eredita da Bush Jr., solo che la carica di una valenza ideologica e protettiva sconosciuta al suo predecessore.

Per Obama e i suoi consiglieri ultra-progressisti, l’Egitto sarebbe stato meglio stabilizzato se al potere fosse andata una formazione religiosa. La stessa che nella storia dell’Egitto contemporaneo è stata sempre ostracizzata da Nasser in poi, e quando, infatti, Morsi venne eletto dopo il vuoto lasciato da Mubarak, alla Casa Bianca si innalzarono festosi, i peana.

L’appeasement con gli estremisti fu una delle cifre fondanti della politica estera di Obama. Nessuno più di lui mandò in soffitta la massima di Churchill, “Un conciliatore è colui che nutre un coccodrillo sperando di essere l’ultimo a farsi divorare”. I Fratelli Musulmani sono, infatti, la cerniera con Hamas, costola palestinese del movimento egiziano che aveva in Yasser Arafat una delle sue punte di diamante. Dalla loro fondazione nel 1928 non hanno mai nascosto il loro antisemitismo. Fu il movimento egiziano a trovare una sponda ideologica con il nazismo e a diffondere nel mondo arabo il “Mein Kampf” e i “Protocolli dei Savi di Sion”.

La preferenza accordata da Obama ai nemici giurati di Israele, tra cui anche l’Iran, si fondava sulla convinzione che solo la negoziazione con gli estremisti avrebbe condotto al loro ravvedimento. Il coccodrillo avrebbe cessato di alimentarsi di carne umana, modificando la sua natura. In questo scenario che fa strame della realtà per mettere al suo posto il più disastroso wishful thinking si inseriva anche il dispositivo ideologico di una netta pregiudiziale anti-israeliana a cui è consequenziale un afflato per la causa palestinese.

La dottrina Obama rispecchiava fedelmente le pregiudiziali più incistate nella sinistra statunitense che vede in Israele un paese colonialista e oppressivo e negli arabi un popolo vittima che cerca di opporsi con la lotta armata. Se Israele è più forte militarmente e più tecnologicamente avanzato è una colpa che deve espiare nei confronti degli arabi i quali, in fondo, si facevano solo esplodere sugli autobus e nei locali pubblici e si sono poi “ridotti” a usare coltelli, pietre e autoveicoli per aggredire e uccidere i civili e i militari israeliani.

Al Sisi è agli antipodi di tutto ciò. Ha fatto strame dei Fratelli Musulmani, ha condannato a morte Morsi, ha tenuto a bada Hamas, e cosa ancora più radicale, ha osato l’impensabile, ha affermato che il terrorismo di matrice islamica ha le sue radici nella religione, che il problema è interno e non esterno. In questo è l’anti-Obama, il suo contrario speculare.

In poco tempo, Al Sisi ha scardinato la narrativa obamiana e messo in mora quella liberal che vede nei Fratelli Musulmani una risorsa e nel terrorismo palestinese un movimento di liberazione nazionale. Da quel momento il presidente egiziano è diventato un nemico, un feroce e sanguinario dittatore, peggio di Assad. Dopo che l’Iran venne sbiancato dall’amministrazione Obama, il problema divenne lui. E’ Al Sisi che viola i diritti umani. Al Sisi e, naturalmente, Israele. Contro di lui si scagliò la stampa embedded obamiana, New York Times in testa.

In questo scenario capovolto, si inserisce la morte del ricercatore italiano Giulio Regeni trasformato in un simbolo della violenza del dittatore e una vittima della libertà e della verità, così Al Sisi è diventato il Pinochet egiziano. Raramente una vittima è stata strumentalizzata più cinicamente e selvaggiamente di Giulio Regeni. I suoi assassini sono egiziani, ma i responsabili morali della sua tragica fine sono personaggi come la Alexander e l’altra sua tutor di origine egiziana, Maha Mahfouz Abdel Rahman, nota attivista antigovernativa che, sempre a Cambridge, gli commissionò la ricerca sui sindacati egiziani indipendenti, con la consapevolezza di mandare il giovane ricercatore italiano su un campo minato.

Dietro l’esaltazione del povero Regeni come simbolo della lotta per la verità e la libertà ci sono gli osteggiatori del rais egiziano, i duri e puri antioccidentalisti e fiancheggiatori dei terroristi palestinesi e della fratellanza musulmana, c’è un’idea di mondo che vede nell’Islam, la più grande potenza colonizzatrice e imperialista degli ultimi 1400 anni, quella che più persistentemente ha coltivato e coltiva le proprie pretese suprematiste e totalizzanti, una vittima da salvaguardare.

Al Sisi è un militare e un uomo abituato alla brutalità e alla violenza in una regione e soprattutto in un paese in cui esse impregnano l’aria che si respira, ma è essenziale per arginare la deriva estremista e musulmana che già si era manifestata dopo la caduta di Mubarak. Quella stessa deriva contro cui Israele, dopo la caduta di Mubarak, aveva messo in guardia. E’ un alleato essenziale per Israele e necessario all’occidente.

Un figlio di puttana utile. Sì, per evitarne di assai peggiori.

 

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