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Politica di potenza e spettro coloniale: i problemi di una Francia che non riesce a trovare se stessa

Quando nel 1956 Francia e Regno Unito decisero di intervenire, senza l’avallo ONU, contro l’Egitto di Gamal Abd el-Nasser che aveva disposto la nazionalizzazione del Canale di Suez, l’allora premier sovietico Nikita Sergeevič Chruščëv rispose intimando loro l’immediata cessazione delle ostilità, pena una rappresaglia termonucleare diretta contro Londra e Parigi. Timoroso di un’escalation che avesse come conseguenza l’innesco di un confronto su larga scala con l’URSS, Eisenhower decise allora di intervenire presso i due alleati, che si videro così costretti al ripiegamento.

Quel 1956 fu dunque una tappa fondamentale nelle relazioni tra gli Stati e per gli equilibri mondiali, il “turning point” che mostrò definitivamente e senza margine di equivoco tutta l’incapacità delle vecchie potenze europee di mantenere il loro status, al di là dei confini nazionali. Una debolezza che si sarebbe evidenziata ancora nel 1987-1988, quando con la firma del documento per l’eliminazione degli euromissili (Trattato INF tra USA ed URSS), il Vecchio Continente che prima aveva protestato contro l’installazione dei Pershing e dei Crusie si trovò questa volta a battere i piedi per il timore di trovarsi da solo, contro un’ipotetica minaccia del Patto di Varsavia*.

Nonostante i processi storici e geopolitici che ne hanno, come abbiamo avuto modo di osservare, bruscamente ridimensionato il ruolo, facendola retrocedere dal rango di “great power” a quello “middle” e “regional power” (al pari dell’Italia), la Francia non ha tuttavia quasi mai abbandonato quella politica “di potenza” figlia del suo passato e di una “grandeur” che mostra ormai tutta la sua pericolosa obsolescenza (fu ad esempio Parigi a boicottare il CED, il progetto di difesa comune europeo)**.

Oltre alla delicata trama di odi e rancori etnici causati dal suo recentissimo passato coloniale e dalla convivenza con i figli di quelle terre assoggettate e brutalizzate per secoli, è proprio questa linea di indirizzo assertiva e proiettiva, incapsulata per esempio e di recente nei raid contro la Siria, che l’ha esposta e la espone alla ritorsione del fondamentalismo, priva dei mezzi per un creare un argine efficace e razionale alla minaccia asimmetrica che le viene portata.

Se, dunque, Parigi e la sponda europea del mondo democratico vorranno proteggersi dall’assalto del terrorismo, dovranno, “obtorto collo”, recuperare quella “solidarietà di blocco” che caratterizzò la finestra storica della Guerra Fredda, unendo le forze al di là degli interessi particolaristici e accantonando quella “raison d’État ” di memoria ottocentesca incapace di sostenere le sfide del mondo contemporaneo.

All’ONU, invece, il compito irrinunciabile di un aggiornamento del suo ruolo direttivo e delle sua intelaiatura, innanzitutto mediante una riforma radicale del Consiglio di Sicurezza che prenda atto della formazione dei nuovi equilibri e del superamento di quel dettato yaltiano che continua ad assegnare a potenze in declino un ruolo guida che non sono più in grado di gestire.

NOTE:

*Secondo gli europei, in caso di attacco delle forze del Patto di Varsavia al Vecchio Continente, Washington avrebbe difficilmente portato un “first strike” per difendere gli alleati contro un nemico che non la stava minacciando in modo diretto, rischiando così una rappresaglia nucleare olocaustica (“second strike”) sul proprio territorio. Questa situazione è nota come “decoupling nucleare”.

**Soltanto François Mitterrand ipotizzò e cercò fattivamente di dare vita ad una coesione di tipo militare con gli alleati europei, in particolare con Bonn e Roma, allo scopo di guadagnare significativi margini di autonomia da Washington e di alleggerirla dal peso finanziario del contenimento del blocco sovietico.

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